di Annibale Ruccello (dal romanzo di Alberto Moravia)
Regia ed ambientazione di Roberta Torre
Con Donatella Finocchiaro, Martina Galletta, Dalia Frediani
Al Teatro Bellini di Napoli dal 14 al 26 febbraio 2012 (e poi in tournée)
Al Teatro Bellini di Napoli, in una replica pomeridiana del dì di festa, faccio in tempo a "recuperare" uno degli spettacoli di questi ultimi mesi al quale, per solo intuito, tenevo di più partecipare. Parlo de "La ciociara", messa in scena da Roberta Torre sulla traccia di un adattamento inedito, dal romanzo di Moravia, che il giovane Annibale Riccello (giovane perché tale morì nel 1986) fece appena in tempo a ristudiare (da quel valido filologo qual'era) e restituire in prosa drammaturgia. Operazione meritevole sin dall'origine, poiché la scrittura "per il teatro" (integrata dalla regia della Torre e dalla qualità degli interpreti, con Donatella Finocchiaro in primis) restituisce senza fronzoli, anzi con sobria sostanza veridico-realista, l'essenza di un "vulnus" irreparabile, in delicato equilibrio fra contesto storico ed oltraggio a quei corpi di donna che ebbero la sventura di dimorare nel frusinate (tra Cassino e Fondi, per l'esattezza, dove anche Moravia si rifugiò e trasse ispirazione), negli scampoli più cruenti che scandirono la finire (solo ufficiale) della seconda guerra mondiale.
Esattamente nel fra il 1943 e il 1944, quando gli alleati, già sbarcati in Sicilia, iniziarono - con disinvolte efferatezze, delegate alle truppe mercenarie- a risalire la penisola in nome di una Liberazione listata di lutti e violenza (ricordate "Paisà" di Rossellini?), con i tedeschi, mestamente e convulsamente, costretti alla loro ultima ritirata.
Nel romanzo moraviano la vicenda si svolge inizialmente a Roma, dove mamma Cesira porta avanti un negozietto ereditato dal poco amato (e defunto) marito. Ma poi, dopo il bombardamento di San Lorenzo, quando la guerra si fa acerrima anche in quei luoghi, le protagoniste (la madre e la figlia Rosetta) decidono di sfollare verso la campagna pontina in un paesino raccolto fra le montagne che la contengono, dove maggiore è la possibilità di sopravvivere.
Tuttavia, secondo il dettami di una memoria che assurge a "detonatore" del crudele passato (penso a certi drammi di Tennesse Williams) lo spettacolo ha –tangibilmente- un andamento a ritroso, una sorta di lungo flash back che inspessisce di attualità e dolore il "danno" di una vita delucidato a posteriori. Con quale l'espediente narrativo?
In un piccolo salotto borghese, anni cinquanta, una signora matura e la figlia trentenne (Cesira e Rosetta, sortite al "disastro" morale e materiale) discutono di spicciole aspirazioni consustanziali del il primo insorgere dell'assillo consumista. E con l'accessoria constatazione che la frenesia da "benessere" (case da arredare, indebitamenti, perdita d'ogni sobrietà) già decomponeva in sottotraccia, e senza la minima coscienza del proprio ruolo, della propria appartenenza civile, il medesimo tessuto sociale che giunge ora (sto esagerando?) al capolinea dei mercimoni, tra Arcore e il mancato orrore di se stessi. In una sorta d'Italia "privata" di memoria (o incapace di metabolizzarla, specie nei suoi ceti piccolo borghesi) che staccava, con mezzo secolo d'anticipo, il suo biglietto di sola andata verso il burrone, lustrini e billionaire, di un terzo millennio in caduta libera.
Non appena Rosetta uscirà di scena, sarà la madre, rimasta sola e disillusa, a "ricostruire" con lo strazio d'una fantasia frammista al "non dimenticabile" i fatti già presenti nel film di De Sica, dalla fuga in Ciociaria alla ricerca d'una qualche salvezza; dall'incontro con l'idealista Michele, all'arrivo degli alleati, culminante con lo stupro suo e della rragazza tredicenne. Viaggio a ritroso (all'"inizio d'una lunga notte") certo- ma soprattutto re-immersione in un inferno mai più debellato, di fantasmi del passato che, momento dopo momento, dalla poltrona del salottino, acquistano una luce diversa ed onirica, senza che pacificazione (interiore) abbia luogo o sostanza. Fantasmi di tutte le guerre di ieri e di oggi, di cui le donne sono vittime antropologiche, etniche, sacrificali? Si,ma non solo. Proiezione simbolica di tutti i dannati della terra che attraversano spazi un tempo non immaginabili alla ricerca d'un libertà che si rivelerà più "corrutrice" del dannato passato: terra straniera per chiunque e dovunque.
Eloquente ed efficace il taglio cinematografico dell' allestimento, basato sull'utilizzo dilatato di una scatola-lanterna magica, a valenza tridimensinale ed "espandibilità" di volti, oggetti, elementi scenografici. Visionarietà che nasce da due pareti di fondo tra cui scorrono alcuni video (appositamente girati), più un velatino anteriore sul quale vengono "esposte" (o sovresposte) alcune proiezioni su scala variabile. Affinchè gli attori si trovano ad agire al centro di questo "espace" virtuale, dando vita a una sorta di mondo parallelo, incombente, mai più districabile. Sopraffatti, a volte, dall'uso esclamativo di canzoni d'epoca (quella 'poderosità' impositiva di Patty Pravo cui 'batte troppo, troppo il cuore...') e dall'abuso degli effetti-pioggia, più bagliori di bombardamenti aerei, che si susseguono sul velario di proscenio.
Angelo Pizzuto