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CERCIVENTO - regia Riccardo Maranzana e Massimo Somaglino

Cercivento Cercivento Regia Riccardo Maranzana e Massimo Somaglino

di e con Riccardo Maranzana e Massimo Somaglino
dal testo "Prima che sia giorno" di Carlo Tolazzi
assistente alla regia Serena Di Blasio
luci e fonica di Claudio Parrino
Produzione Teatro Club Udine 2009

www.Sipario.it, 25 aprile 2009

Cercivento è una piccola località della Carnia, nelle montagne del Friuli sul confine nord orientale, sconosciuta ai più come gli eventi che qui si sono svolti nell’estate del 1916. Allora quattro giovani alpini friulani della 109° Compagnia del battaglione “M.te Arvenis”, in azione nei pressi del valico di Monte Croce Carnico, furono fucilati dietro al cimitero del paese dopo una sentenza che li giudicava colpevoli di un atto di “rivolta in presenza del nemico”. Qualche giorno prima l’intera compagnia si rifiutava di lanciarsi alla conquista di un picco roccioso del Monte Cellon, come ordinava il loro capitano comandante, giudicando l’azione suicida e proponendo una tattica diversa suggerita dalla profonda conoscenza del territorio, natio per molti di quei soldati. L’ufficiale portò tutto il battaglione davanti alla Corte Marziale; dopo un rapido processo, l’assise decretò la pena di morte per quattro di loro e decine di anni di reclusione per molti altri. Inoltre, dopo l’esecuzione fu impedito ai parenti di accedere al luogo e di seppellire i propri cari. I loro nomi non compaiono in nessun sacrario; privati drammaticamente della vita e dell’onore, continuano però a vivere nell’ostinazione delle loro famiglie, che chiedono la revisione dell’accusa, e nella memoria della gente del posto dove è sorto un cippo che li ricorda. Questi i fatti che stanno alla base dello spettacolo “Cercivento”, racconto scenico di un episodio della Grande Guerra creato pensando agli ultimi momenti di vita dei suoi protagonisti.
L’atto unico – riduzione drammaturgica del testo dello scrittore friulano Carlo Tolazzi, interpretato con rara intensità da Riccardo Maranzana e Massimo Somaglino, è un’operazione complessa e ambiziosa. Il lavoro, infatti non rappresenta solo la volontà di riabilitare e render giustizia a questi giovani; denuncia anche l’ottusità delle logiche militari e la guerra in tutte le sue manifestazioni, testimoniando come le vittime siano sempre e comunque gli individui e le comunità, del tutto incompresi e ignorati nella ricchezza del loro patrimonio umano e culturale in nome di vuote retoriche militari. Il conflitto vero, dunque è quello tra la semplificazione patriottica richiesta dalla guerra e dai suoi apparati e la complessità di un territorio peculiare, denso di dinamiche culturali nate dall’incontro, a cui ogni confine meccanicamente tracciato sulla carta non può che stare stretto. I due personaggi, Angelo e Basilio, sono due giovani alpini friulani, uno di lingua tedesca (in uso nel paese di provenienza, Timau), l’altro dal dialetto veneto; le coloriture, i suoni e i ritmi delle loro diverse parlate ci raccontano la stessa paura di morire e il tentativo estremo di aggrapparsi alla vita. Trascorrono le loro ultime ore nella sacrestia della chiesa del paese, improvvisata cella e ricreata in scena simbolicamente da un cerchio tracciato con piccoli, importanti oggetti comuni. Sono piccole cose che inteneriscono, una sigaretta qua e là, fotografie, utensili di uso quotidiano, come un’illusoria protezione che riassume la loro vita e il loro sentire. Un coro alpino in crescendo, fino a diventare un grido che squarcia la scena, apre lo spettacolo con la luce sui due personaggi, dai caratteri e dai vissuti diversi. L’ansia, la rabbia, la stanchezza e la paura emergono in un dialogare spesso scomposto, disarmonico, fatto di ricordi e di speranza, vissuto con una fisicità a tratti spinta allo scontro e con un’energia disperata. La prepotenza vitale della loro gioventù in mezzo alla tragedia è un elemento che accresce l’angoscia, nei momenti di pausa, la speranzosa riflessione lascia rapidamente lo spazio allo sgomento dell’impotenza. E allora c’è solo il tempo per parlare degli affetti, della casa, del figlio appena nato, realtà cancellate da un’ottica disumana, che ragiona con la vuota retorica del concetto diverso/nemico, che non è un ideale, ma una delle miserie della mente umana.
Il lavoro, molto coinvolgente e convincente, come una parabola esemplare non può che chiudersi se non con l’espressione di una consapevolezza raggiunta: vivere è qualcosa di più che cercare di sopravvivere. E’ un messaggio raccolto e portato avanti con impegno e bravura.
Lo spettacolo, in tournée nella stagione 2008/’09, ha debuttato in prima nazionale nell’edizione 2003 del “Mittelfest” di Cividale.

Fernanda Hrelia

Ultima modifica il Domenica, 11 Agosto 2013 16:18

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