Di Mauro Covacich
Adattamento teatrale e regia di Igor Pison
Con Riccardo Maranzana, Filippo Borghi, Federica De Benedittis, Andrea Germani
Trieste, Politeama Rossetti, Sala Bartoli, 10 marzo 2018
È l'immagine di un'umanità scomoda, ributtante, ferina. Si staglia sulla scena con evidenza brutale nei tre atti curati dal regista Igor Pison che ha conferito veste drammaturgica alla narrativa di frontiera di Mauro Covacich. Lo scrittore triestino ha dedicato, infatti, nel 1998 alcuni brucianti racconti alla guerra nella ex Jugoslavia, un conflitto così vicino geograficamente ma presto affondato nell'oblio. Un trittico intitolato "Anomalie" dove "la guerra è una situazione che nega la vita" e "tutti ne sono potenziali vittime", dove il realismo della barbarie è bruciante ed è usato come pars pro toto per rimandare alle atrocità attuali. Dolore, insensatezza, violenza oltre ogni coscienza e assenza di qualsiasi speranza sono lo scenario sempre uguale per vittime e carnefici, civili e cecchini. Sul palcoscenico quattro attori della compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia dalla presenza forte e ingombrante (Riccardo Maranzana, Filippo Borghi, Federica De Benedittis, Andrea Germani), coadiuvati altresì nel ricreare un'atmosfera claustrofobica, votata a "una certa sensazione di ineluttabilità", dagli spazi esigui della Sala Bartoli.
Le tre brevi narrazioni che sin dall'inizio tendono all'epilogo come "un tuffo, una caduta a precipizio formalizzata in un gesto" rimandano con forza raziocinante a situazioni estreme, sempre anomale. Ascoltiamo così le confessioni memoriali lucide e fredde di un cecchino, catturato dai nemici ("Se devi eliminare qualcuno che non conosci devi considerarlo un po' più di un animale e un po' meno di un uomo"). Si animano poi le vicende di un gruppo di ragazzi e ragazze che, impegnati in una partita di basket a Sarajevo, cercano la normalità, provano nostalgia per la vita tranquilla prima del conflitto, ma sono improvvisamente stroncati dallo schianto di una granata. E infine l'ultimo dialogo contraddittorio ed accorato di due innamorati, divisi per razza e religione, straziati nel loro anelito di eros e di thanatos.
Lo spettacolo parla in maniera concreta, quasi "materica", di terrore. Tratta lo spettatore a pugni nello stomaco, lo scuote con simboli di morte (i fucili, gli abiti militari, i recinti di ferro...) e rumori di esplosioni, lo culla con canzoni dei Balcani, filologicamente citate per ricreare la temperie umana ed artistica del periodo bellico.
Elena Pousché