Di Reiner Werner Fassbinder da "La bottega del caffè" di C. Goldoni
Traduzione: Renato Giordano
Scene: Barbara Bessi
Costumi: Barbara Bessi
Luci: Gianni Staropoli
Drammaturgia sonora: Riccardo Fazi
Foto di scena: Simone Di Luca
Regia: Veronica Cruciani
Produzione: Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia
Interpreti: Filippo Borghi, Adriano Braidotti, Ester Galazzi, Andrea Germani, Lara Komar, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Maria Grazia Plos
Trieste, Politeama Rossetti, 20 novembre 2016
La rilettura di un classico del Settecento è al centro della complessa operazione drammaturgico-registica proposta da Veronica Cruciani nel suo "Das Kaffeehaus". Il titolo, giustamente citato in lingua originale, rimanda al copione dalla cifra neo-espressionista che Reiner Werner Fassbinder alla fine degli anni '60 aveva tratto dal capolavoro goldoniano "La bottega del caffè".
Nuova produzione del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, lo spettacolo restituisce di Venezia una dimensione allucinata, onirica, enigmatica, quasi una scatola nera damascata, sospesa sullo sciacquìo dei canali, che racchiude un'umanità acronica, esasperata nelle proprie debolezze. La ricerca affannosa della felicità legata al denaro, quell'auri sacra fames per citare l'emistichio di virgiliana memoria, spinge i personaggi a partecipare con ossessività alle vicende altrui fino a destrutturarsi in entità straniate, ciniche, irrisolte nei loro drammi.
Nel locale del caffettiere Ridolfo (Riccardo Maranzana) ci si incontra e si parla. Soprattutto di denaro, in particolare di zecchini e di gioco d'azzardo. Naturalmente aleggiano pure i sentimenti, i nobili ideali (amicizia, fedeltà, onore, sincerità) ma anche per questi bisogna pagare un prezzo, devono essere monetizzati in modo febbrile. È un microcosmo in cui all'inizio tutto s'intreccia, ma alla fine anche tutto precipita. In principio appare come luogo di ritrovo di avventori abituali, collocato vicino alla bisca di Pandolfo (Graziano Piazza), responsabile della rovina del borghese Eugenio (Filippo Borghi). È il regno delle formalità e delle ipocrisie, dove serpeggiano i pettegolezzi, in un vociferare convulso dei fatti degli altri. Poi, smantellata ogni inibizione, assurge ad altare dionisiaco dove ognuno, cercando di sopravvivere, rivela la natura egoistica più intima. La vibrante musica barocca cede il passo a quella elettronica, l'euforia del Carnevale alla vacuità delle feste più mondane, l'oscurità alla luminosità fredda del neon. Solitudine, sopraffazione, violenza per la conquista del potere, deflagrano nel finale sotto le luci di una catartica agnizione (la vera identità del sedicente Conte interpretato da Adriano Braidotti).
Una prova efficace di tutto il cast, sempre presente con fissità sulla scena, chiamato a scavare nel sottotesto e ad enfatizzare le corrotte dinamiche interpersonali. Oltre ai nomi già menzionati, emergono con forza le figure del pettegolo usuraio don Marzio (Francesco Migliaccio), della giovane moglie abbandonata (Lara Komar), della cortigiana Lisaura (Ester Galazzi), del garzone Trappola (Andrea Germani) e della pellegrina in incognito (Maria Grazia Plos).
Elena Pousché