di Michail Bulgakov
adattamento di Francesco Giuffré e Riccardo Scarafoni
con Bruno Alessandro, Marta Nuti, Patrizia Romeo, Gabriele Sabatini, Riccardo Scarafoni
regia di Francesco Giuffré
musiche di Andrea Amendola
scene di Paki Meduri
costumi di Alessandra Traina e Margherita Meddi
Fino al 23 dicembre al Teatro Argot di Roma, 2008
Ci sono libri, racconti, novelle, che non è facile leggere. Un sentimento di smarrimento e di rifiuto ne accompagna la lettura. Non si può abbandonarli a metà, ma costa fatica arrivare all’ultima pagina. E trovarli rappresentati a teatro dà il senso rassicurante della pacificazione. “Cuore di cane” di Michail Bulgakov ha l’effetto, anche sul lettore più distratto, di un pugno nello stomaco. La storia triste e inquietante di Pallino, cane randagio sottratto alla strada per essere rimpinzato di cibo quindi tagliato e ricucito con dentro il cervello e le ghiandole seminali di un uomo appena deceduto, è già di per sé terrificante. Un cane “abusato” dall’uomo che, per ironia della sorte, si trasformerà lentamente nella creatura che più di tutte odia e ama, uno pseudo essere umano che a sua volta abuserà della vita, della morale quindi di se stesso diventando un mostro, suo malgrado. In altri termini la devianza propria della “razza” umana trapiantata in un essere innocente e inconsapevole.
Bulgakov, maestro del grottesco e del fantastico, lucidissimo nella costruzione di una storia che per i suoi contenuti ideologico-politici – denuncia manifesta della corruzione, la speculazione e la caduta di valori morali della Russia degli anni Venti – gli valse più di sessant’anni di censura da parte del governo, prende il lettore e lo butta con violenza, dalle prime righe, dentro la storia. Senza pudore. Come? Facendo parlare Pallino, dando espressione ai suoi pensieri “canini” più intimi, alle paure e aspettative di “vittima”, studiandone i mutamenti dell’animo, la sofferenza, la trasformazione. Preso, operato, redarguito, consigliato, il povero mostruoso cane-uomo, dopo un ambientarsi solo apparente, tornerà ciò che era in partenza e amerà il suo carnefice. Fine della storia: manipolazione sulla manipolazione. Una tessitura narrativa che andando in profondità, tocca i temi politici del tempo, come le aberrazioni nate dalla spenta fiammata rivoluzionaria, ma anche un tema attuale oggi più che mai: i rischi della violenza sulla natura e le insidie di una troppo pragmatica e specialistica ricerca scientifica.
Una fascinazione (di temi, atmosfere e contenuti) che a teatro si potrebbe ipotizzare ancora più amplificata. Con tutte le difficoltà del caso, certo. Perché si dovrebbe immaginare su un palcoscenico, in simultanea convivenza, un “primo piano” sui pensieri e sulla metamorfosi dell’animale, e un campo lungo sull’insieme della varia umanità che popola il racconto trasmettendo il senso del Caos, con qualche fuori campo, per capire ciò che succede a Pallino nel quotidiano confrontarsi con le debolezze e le nefandezze che sono parte integrante dell’essere uomini. La sfida, raccolta da Francesco Giuffré per il suo adattamento dell’opera, dal titolo omonimo – la riduzione porta la firma anche di Riccardo Scarafoni – non è da sottovalutare. E l’impegno del giovane regista, negli intenti è totale. In uno spazio scenico dominato dal rosso, rosso sangue, rosso della rivoluzione bolscevica, colore della passione, della vita e della tragedia, la mutazione del cane in Pallinov Poligraf Poligrafovic avviene secondo i ritmi, i colori, il surreale e visionario gioco propri del Circo. La drammatica evoluzione in essere umano, patita dal cane come una tortura, e mille volte maledetta, diviene incubo per gli artefici della mostruosità ma anche strumentalizzazione per gli estranei che osservano con curiosità morbosa la nascita di un nuovo uomo da inglobare nella rete delle convezioni e delle leggi della società del tempo, un’altra vittima dell’apparato burocratico. “Ma un uomo senza documenti è davvero un uomo”, s’interrogano l’autore e il regista? Il problema non è il foglio di carta che attesti chi è quello strano essere vivente, ma ciò che esso pian piano incarna. La bestialità e la meschinità umane, in lui, sono intollerabili e ingestibili da parte di chi lo circonda. Curiosamente ciò che è passabile e giustificabile riferito agli altri, non lo è riferito a lui. Pallino non riesce fino in fondo ad aderire all’Uomo: sputa, bestemmia, lecca i piatti, insegue i gatti e si veste ridicolmente, eppure assorbe il Peggio di esso. Giuffré si affida alle maschere e alla stilizzazione del teatro dell’assurdo per descrivere un mondo privo di identità, senza volto. Pupazzi tutti, marionette di una realtà confusa in cui Pallinov viene risucchiato. E tra lampi di convincente regia smarrisce il ritmo del racconto, dilata il tempo di situazioni e stati d’animo non pregnanti per poi un attimo dopo cambiare registro e dinamiche narrative. Con il risultato purtroppo, di una disomogeneità. Si perde il filo insomma. Perché non si lascia parlare il testo, viene da chiedersi?
Smarrendo la morale e la perversione della storia, ecco il professore diabolico autore dell’impianto, Filipp Filippovic, diventare una sorta di bonario e rassicurante patrigno del cane, ben lontano dall’inquietante luce che invece Bulgakov gli regala giustamente nel libro. E Pallino, che in scena ha il volto di Riccardo Scarafoni, fa il suo meglio per diventare “ibrido”, ma non convince del tutto nell’identità di “cane”. L’ottima intuizione registica di ricorrere alla Metafora e alla metarealtà poteva diventare il fil rouge dello spettacolo. Avrebbe evitato l’insistenza su dettagli minimalistici – come il nudo integrale, il continuo sputare sul pavimento, tra gli atri – che non servono a far entrare lo spettatore nella “realtà” della vicenda. Siamo nella terra della mostruosità e del Paradosso, il surreale mal si accorda con dettagli di realismo. Perché il Mostro è già nel testo. E il testo, soprattutto in casi come questo, dovrebbe essere punto di forza ed essenza. Le riduzioni non ben orchestrate talvolta rischiano di diventare qualcos’altro, di stravolgere il senso. Perché, ci chiediamo, tutta la prima metà del racconto finisce condensata in poche battute? In altre parole: perché lo sviluppo interiore del personaggio principale non è presente nell’adattamento? Come si può trasmettere il senso dell’abuso descritto con angoscia da Bulgakov se non si comprende l’evoluzione interiore dell’animale sottoposto alla violazione?
La messinscena, comunque godibile, ha il merito di confrontarsi con una drammaturgia difficile, di grande impatto sulla platea. Tra gli attori, una esilarante e surreale burocrate interpretata da Marta Nuti.
Flavia Bruni