scritto e diretto da Francesco Giuffrè
Con Carlo Giuffrè, Marta Nuti, Pietro Faiella, Valerio Amoruso, Riccardo Francia
Scene di Andrea Del Pinto. Costumi di Sabrina Chiocchio. Disegno luci di Giuseppe Filipponio
Musiche di Gianluca Attanasio. Realizzazioni video di Letizia D'Ubaldo
Roma, Teatro Piccolo Eliseo dal 4 al 30 marzo 2014
Rivedendo in scena Carlo Giuffrè, dopo tanti anni di esaltazioni partenopee, dense di autoctono orgoglio eduardiano (Il sindaco di rione sanità, Natale in casa Cupiello, Miseria e nobiltà), torna in mente il grande traguardo (di magnetismo e senile fatica) non sempre concesso a tutti i grandi attori. Avendo però avuto la fortuna di poterne testimoniare nei confronti di Paolo Stoppa (Il berretto a sonagli), Salvo Randone (Tutto per bene), Turi Ferro (La cattura) e del sapido Ernesto Calindri nei suoi slalom su Oscar Wilde.
Poiché è una fatica molto ineffabile- viscerale, corporale, d'un eroismo scenico che, senza enfasi, rasenta il mitologico (da Sisifo a Prometeo)- quella che l'anziano e 'dimesso' Carlo Giuffrè, profonde nella sua interpretazione de La lista di Schindler, diluendo la sua oggettiva 'stanchezza' di ottuagenaria memoria (quella pregiata 'stanchezza' e pena del vivere che, in un solo abbraccio, comprende Pirandello, Kierkegaard, Jean P. Izzo, il nostro Sgalambro) in espressività smarrite, avvincenti, pudicamente stremate e frastornate. Dall'avvicendarsi e accavallarsi di quelle schegge di lancinante ricordo che, nel suo ultimo giorno di vita, s'immagina aggrediscano, netto flusso di coscienza e bilancio d'una vita, quell'Oscar Schindler glorificato da Steven Spielberg nel sapiente film del 1993 (Oscar su Oscar, accadde a Hollywood), interpretato da Liam Neeson e Ben Kingsley.
A sua volta desunto (e magistralmente sceneggiato) dal romanzo di Thomas Keneally, basato sulla vera storia dell'industriale tedesco, in affare con i nazisti, che –dopo avere usato gli ebrei come forza lavoro- gradatamente, proprio in ragione dei suoi rapporti con il regime, riesce a strappare oltre mille semiti dalla destinazione senza ritorno dei campi di sterminio. Non 'percepensosi' , avendo corso tanti rischi in prima persona e rispetto alla sua famiglia, né un eroe né un idealista, bensì un uomo partecipe (criticamente, fattivamente) dell'empietà, delle scelleratezze di una Storia infelice ed assurda, perennemente fondata sull'odio contro il 'diverso' e sull' l'istinto omicida pianificato in genocidio ed autoassoluzione ideologica d'una 'stirpe'dura e pura.
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Di scena al Piccolo Eliseo di Roma, La lista di Schindler è dunque un viaggio introspettivo e 'a ritroso', esplorazione in forma di confessione e grovigli del turbinante ricordo, di un protagonista immaginato (nella drammaturgia di Francesco Giuffrè) 'a oltre trent'anni dalla Shoa', diversamente da quanto accadde al 'vero' Oscar Schindler che morì poco più che settantenne, ma fondatore di un'istituzione umanitaria che reca ancora il suo nome.
Interrogato da un 'verosimile' neonazista violento e fanaticissimo nel suo annuncio di un (delirante ma non peregrino) 'quarto reich', il protagonista varca la soglia dei ricordo in due specifici snodi esplicativi: quello del sollievo , dell'autostima (mai compiacimento) per ciò che è riuscito a fare; e quello del tormento per non aver potuto (o voluto?) fare di più, andare come Ulisse oltre le colonne d'Ercole dell'umana pietas. Consolazione e sensi di colpa (rimossi sommati al rimorso) si sviluppano in dicotomia, in di sistema 'binario' e contraddittorio,qui strumenti di un sentimento 'dell' incompiuto' al quale si prova di dare significato razionale, senza peraltro giungere ad una requie definitiva.
Il travaglio del vecchio Schindler, aggredito e irretito dai fantasmi del nefasto passato–mediante la consueta tecnica del flash back a 'doppio fondale', filmati d'epoca e didascalie segnaletico-luminose che si susseguono sull'arco scenico- è il 'passe partout' di uno spettacolo energico ma sobrio, di taglio tradizionale, evocativo, ma di asciutta speditezza, egregiamente risolto senza retorica e con uso di mezzi scenici volutamente 'poveri' e di artigianale ingegno (penso alle piccole assi di legno che, adoperate da due attori, diventano al contempo rotaia e locomotiva).
Come mosaico di dettagli un tempo trascurati (i rapporti incompiuti con la moglie Emile, quelli con l'amico e sodale Amon Goeth) questa drammaturgia dell'impalpabile ha uno svolgimento frugale, umbratile, sommesso. Tutto inglobato dalla penombra del 'non detto' , del sottinteso, del 'difficile a dirsi'. Ma, proprio dal suo rinunciare ai toni epici e neo-romantici (che talvolta affioravano dall'opera cinematografica), mi pare derivi la forza 'maieutica' dello spettacolo e della disciplina attorale di Giuffrè. Intendendo la 'maieutica' nella sua primaria accezione di 'levatrice' di nuova vita, estrapolatrice di un più alto grado di lettura- che è forza motrice di un livello di guardia cui tocca vigilare e politicamente allertarsi. Proprio in questo tempo (nostra quotidianità lesiva) avvelenato dal rigurgito di regressioni al nazionalismo e alle 'piccole patrie' dell'autarchia oscurantista. Che mai si nega ad imprese predatorie, criminali, espansive d'uno 'spazio vitale' che per sua natura non ha memoria né confini temporali.
Angelo Pizzuto