di Eugène Ionesco
traduzione di Gian Renzo Morteo
regia di Massimo Castri in collaborazione con Marco Plini
con Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio e Francesca Borchi
scene e costumi di Claudia Calvaresi
progetto luci di Roberto Innocenti, musiche di Arturo Annecchin, assistente alla regia Thea Dellavalle
produzione, Teatro Metastasio Stabile della Toscana
visto al Ponchielli di Cremona, il 4 febbraio 2014
Il teatro comme il faut, eppure a suo modo 'rivoluzionario', incendiario nel salotto all'inglese dei signori Smith... La cantatrice calva di Eugène Ionesco trova una sua divertita ma non scontata realizzazione nella regia di Massimo Castri – ultimo lavoro del grande regista morto un anno fa e portato a termine dal suo aiuto Marco Plini – una regia che fa intuire come in quel salotto borghese si giochi la guerra dei sessi, si giochi la tragicommedia del linguaggio che va a rotoli, che s'inceppa, che fa le capriole eppure contiene il nostro essere. L'interno è quello di un elegante salotto ottocentesco, un interno ibseniano in cui Massimo Castri ha ambientato il testo di Ionesco, con una felice intuizione: andare in cerca del non detto, della violenza che sta dietro quelle parole che si costruiscono su situazioni assurde, che dietro un'apparente normalità finiscono con lo scivolare in calembour, modi di dire, assurdità linguistiche, storielle di vacche partorite da vitelli, medici che per dimostrare la loro serietà devono perire con i malati...
Se pure l'origine della Cantatrice calva è nei toni impostati e nelle frasi di certi manuali di lingua inglese – da cui lo stesso Ionesco dichiarò di aver preso spunto - ma anche nella divertita parodia di certo teatro boulevardier, ciò che passa nell'ultima messinscena castriana è una sottile tensione che è a tratti stemperata nella comicità del dire, tensione che monta pian piano col crescere e assommarsi delle situazioni improbabili, dello stupore per quell'uomo che si lega i lacci, nell'ingresso del capitano dei pompieri, più volte annunciato dal suono del campanello che viene di volta in volta disatteso, mettendo in dubbio che il suonare alla porta presupponga l'ingresso di un ospite. E se i coniugi Smith sembrano vivere da sempre in quel salotto, in quella casa, per i Signori Martin l'essere insieme senza riconoscersi, il ricostruire per coincidenze – vivere nello stesso appartamento e dormire nel medesimo letto – il proprio legame coniugale dice di una necessità di costruire con le parole relazioni affettive che fuori dai confini di quell'interno borghese si perdono, si annebbiano. Se questo perdere le coordinate vale per i signori Martin, per gli Smith la coabitazione assomiglia a una sorta di convivenza destinata ad esplodere, o meglio implodere. E non è un caso che la scena e i costumi di Claudia Calvaresi con una connotazione precisa e quasi crepuscolare si ritrovino a 'galleggiare' in una scena buia, come se fossero gli unici appigli di realtà in un vuoto che incombe così come vuoto è il dialogare delle due coppie inglesi, che vivono nei dintorni di Londra, vivono una realtà che è sfumata, sfuggente come gli inciampi di parole del loro disquisire per assurdo.
La costruzione ritmica e comica del linguaggio ioneschiano procede per scarti, antitesi, iperbole, accumulo. A questo affastellarsi di situazioni Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone Sara Zanobbio e Francesca Borchi danno una solida interpretazione attoriale, costruiscono quei non-personaggi con atti nervosi, con una mimica marcata ma non macchiettistica, che diverte e al tempo stesso sa essere controllatissima, un teorema linguistico e mimico-vocale volto a dimostrare il nonsense di un linguaggio che è proprio di una borghesia universale, somma e culmine di ogni stupidità. Dopotutto l'arringa finale con luci accese alla ribalta e il delirio sonoro e onomatopeico recitato sul pubblico come in certi spettacoli di varietà non dice altro che quei borghesi stanno in sala, non è altro che la condivisione non troppo taciuta e un po' 'accusatoria' del flatus vocis di un raccontarsi che è non solo dei signori Smith e Martin sul palco ma anche dei signori Ferrari e Rossi in platea. L'applauso finale non può essere che riconoscente e divertito, premia un teatro che ha tutte le regole semantiche e grammaticali a posto e che sotto l'apparente regolarità dice di quanto ottuso e un po' vieto sia il nostro quotidiano parlare. E alla fine si avverte una grande nostalgia per il pensiero teatrale di Castri, per la capacità del regista di leggere, interpretare e portare in scena i testi con grande rigore, giocando ancora una volta la sfida all'ultimo respiro fra parola scritta e parola respirata nello spazio della scena. Massimo Castri manca veramente a tanti.
Nicola Arrigoni