scritto e diretto da Donatella Venuti
con Margherita Smedile
Messina, Sala Laudamo dall'8 al 10 gennaio
Spesso il Teatro ma anche il Cinema e le Arti visive attingono a piene mani alle news che i media diffondono con più o meno libido sul web o sulla carta stampata, insistendo spesso su particolari colori e tinteggiature. Esempio è la pièce Caterina di Donatella Venuti, scritta in dialetto messinese (forse un omaggio a Spiro Scimone) e in lingua, lei stessa curatrice della regia alla Sala Laudamo di Messina, riservendo per sé pure un ruolo per niente marginale, ruotante attorno ad uno stupro perpetrato da un padre-padrone nei confronti della figlia del titolo, che scorgiamo all'inizio dello spettacolo all'interno d'un manicomio. Un luogo in cui Margherita Smedile, che le dà fattezze realistiche, abita da un paio di anni, sviscerando dolori e sofferenze recategli da un orco in casa che avrebbe dovuto darle solo affetto e amore e che va ripetendo di continuo, rivolta ad una figura astratta sul proscenio, che il suo tesoro, inteso come anima o verginità, lei lo tiene gelosamente nascosto dentro di sé non regalandolo a nessuno. Una prova superba, intensa, pregna di pathos la sua, espressa con una varietà di toni vocali, in grado certamente d'affrontare questa nostra piccola-grande attrice nostrana ruoli impegnativi come la Carmen bizettiana, la Lupa verghiana, la Maria del Woyzeck di Büchner o la Lulu di Wedekind. In questo lager Caterina è curata da un medico (un po' legnosetto invero quello di Nicola Buonomo) che cerca di confortarla e sostenerla generosamente e la scena, ad opera di Franco Lombardo, suoi pure i costumi, su un accompagnamento musicale del figlio Arcadio, si veste di grottesco quando giunge la sua famiglia, con l'intento di riportarla a casa, composta da una madre (la stessa Venuti) su sedia a rotelle in grado di deambulare come una bambola in preda ad Alzheimer, un padre dai capelli impomatati (Gerri Cucinotta) un malamente quasi, sempre su di giri, in continuo evidente disagio e dunque irascibile per qualunque argomento gli venga propinato e infine la nonna en-travesti di Alessio Bonaffini con gonfia parrucca grigia, esagerato crocefisso d'Assisi al collo, goffo nell'incedere su due gambe somiglianti a due stampelle a forma di sette, molto vicina a quella nonna in carrozzella di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola. Questi famigliari, le cui donne abbracciano tre generazioni, sembrano i parenti terribili di Cocteau, con la differenza che qui il lavoro della Venuti si incunea in alcuni risvolti di tipo antropologico, inserendovi una preghiera del Pitrè che la nonna utilizza per fare con quella croce dondolante sul petto un esorcismo e togliere il malocchio alla nipote. E in un finale consolatorio (con qualcosa da rivedere) si vedrà il padre che si leverà di torno perché colto da un ictus e Caterina che giunta all'età di 40 anni, cinque passati in quell'ospedale psichiatrico, potrà finalmente aprire la finestra della sua stanza e volare come un cuculo dove meglio le piacerà. Successo per il Gruppo Morman 2 che ha prodotto lo spettacolo.
Gigi Giacobbe