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D'ESTATE CON LA BARCA - SCENDE GIÙ PER TOLEDO - regia Luca De Fusco, Arturo Cirillo

Gaia Aprea in "D'estate con la barca", regia Luca De Fusco Gaia Aprea in "D'estate con la barca", regia Luca De Fusco

D'estate con la barca
di Giuseppe Patroni Griffi
regia Luca De Fusco
Con Gaia Aprea
Scene Luigi Ferrigno
Costumi Zaira de Vincentiis
Disegno luci Gigi Saccomandi
Musiche Ran Bagno
Realizzazione video: Alessandro Papa
Produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
Al Piccolo Eliseo dal 4 al 12 aprile 2018

Scende giù per Toledo
di Giuseppe Patroni Griffi
Diretto e interpretato da Arturo Cirillo
Scene di Dario Gessati
Costumi di Gianluigi Falaschi
Al Piccolo Esiseo di Roma dal 17 al 29 aprile

www.Sipario.it, 25 aprile 2018

Due atti unici in ricordo di Giuseppe Patroni Griffi

A distanza ravvicinata, il Piccolo Eliseo di Roma, che proprio a Giuseppe Patroni Griffi venne intitolato due anni dopo la sua morte (2005), propone in forma di atti unici due testi giovanili dell'eccentrico, intraprendente, indolente\iperattivo scrittore napoletano, "datosi" alla regia (ci raccontò in una lontana intervista) "più per interesse economico..." ("affrancarmi da ogni familiare dipendenza") che per "brama di vocazione". Vero o falso che fosse (al sapido Peppino piaceva mescolare fantasie, esperienze reali, biografie altrui "chieste" in prestito), c'è poco da interrogarsi: sia "D'estate con la barca", sia "Scende giù per Toledo" restano due limpidi esempi di narrativa anni sessanta in cui il connubio fra giovinezza e ansia di vita si discosta dalle penombre, a quei tempi in auge (penso ad Ercole Patti, ad Alberto Moravia), ove la sessualità si "auto-ergeva" a malconcia insegna della 'verginità perduta' (ovviamente tutta al maschile).
"D'estate con la barca", redatto nel 1955 (per l'editore Vallecchi), si segnala e si sublima in una sorta di sensibilità tutta al femminile in cui alla "voluptas dolendi" dell'intellettuale d'epoca (magistrale nell'umorismo color seppia di Ennio Flaiano) subentrava una (inedita, tranne per Gadda) "cognizione del dolore", consistente nell'irruzione dell' 'evento' tragico e nella 'necessità' di doverlo precocemente metabolizzare, consustanziarsene- per poi avviarsi ad una "condizione adulta" impoverita e fortificata" da scetticismo e disincanto (necessari alla "sopravvivenza" della "corda civile" nelle relazioni umane).
Gaia Aprea, vibratile e padrona assoluta della scena (impalpabilmente 'accudita' dalla regia di De Fusco) racconta (in seducente alternarsi di prima e terza persona) la gita in barca lungo la costa di Posillipo di due coppie di ragazzi, all'insegna dell'amore e del sacrosanto ardore giovanile. "Le coppie – di per sé, annota De Fusco- nascono già teatrali: quattro ragazzi che mi piace immaginare giovani primi attori o comprimari in sospirata vacanza". Forse dopo una precaria stagione di fatiche e trasferte. Non è un dettaglio da poco, poiché la bella performance della Aprea si offre ad un trepidazione, ad un'ansia di 'pudica esibizione\rivelazione' che ha pentagramma di connotazioni inattese: per questa "gita" di vivacità e progetti di vita che, per meglio chiarire, sta tutta all'opposto del più famoso "faro", immoto e introspettivo di Virginia Woolf.
Escursione di mare (al riparo da ogni terra) che, d'improvviso e per sventura, cambia rotta e registro: dall'esultanza dei sensi al lurido blitz della nera-sparviera, che – approfittando di un 'aitante' tufffo del ragazzo- pone fine al caro e carnale idillio: nell'istante in cui va complicarsi nella probabile procreazione di una creatura che verrà al mondo già orfana, quindi predisposta alla cognizione dei mille dolori con cui "sconteremo la morte vivendo". Sobrio e lancinante come certe iniziazioni alla vita care Elsa Morante e Quarantotti Gambini, "D'estate con la barca" è atteso a Parigi per essere conosciuto da una più vasta e meritevole platea.
Ps Una 'perla' incastonata nel racconto: la descrizione sismica, non morbosa di un femminile orgasmo che è "gioia, stordimento, premonizione". Unicum letterario di un uomo – scrittore, almeno in ambito italiano.

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Per capirci: il problema non è di gender, ma di anima: se decidere di averla o no, se poterne fare a meno o gettarla alle ortiche – o ai clienti rozzi, timidi o 'meschinielli' fa poca differenza.  E, a quanto pare, Rosalinda un'anima la ha, sensibile, vulnerabile, sognante quel tanto che basta a rendere trepidante e infelice la sua condizione di "femmeniello napoletano". Peculiarità da non sottovalutare, poiché in terra partenope "questa perniciosa, patologica variante o devianza del genere femminile o maschile...chissà" beneficia di un certo rispetto, antropologicamente atavico, purtroppo vanificato dalle nuove insorgenze dello scherno, dell'intolleranza machista e codarda (i più occulti, morbosi frequentatori), del 'decoro urbano' che poi trascura il degrado dei 'vasci' e dei tuguri verso i quali non v'è "Gesù fate luce" che faccia miracoli.
Per capirci: non è nemmeno problema di sessualità inespressa, di strazio amoroso, di "sentirsi altro" rispetto all'anatomia del proprio corpo: in genere il "femmeniello" sta bene così com'è, non persegue (o perseguiva) cambiamenti di sesso imposti dalla omologazione estetica-genitale, e se viene  infastidito reagisce  (benissimo)  come quel ragazzo\a  siciliana che, durante una festa goliardica, sbattè in faccia agli imbecilli sarcastici "Io non sono né frocio, nè gay..e nepppure gaio: io sono Puppo! " (variante dell'appellativo 'oltre lo Stretto').
Per capirci, quindi, diamo a  Patroni Griffi quel che gli è dovuto, annotando che, già nel 1974 (ovvero molto prima della sapienziale melanconia di Enzo Moscato, delle minacce criminal-metafisiche di Annibale Ruccello in "Le cinque rose di Jennifer") aveva dato "dignità letteraria" e drammaturgica ad un personaggio che disturba i benpensanti, in cui Arturo Cirillo profonde (e poi effonde) se stesso e il suo altro da sé, in una sincronia-sintonia di movenze, tonalità, sprazzi di accensioni fantastiche (essere la Callas o Marlene) e di 'amare evocazioni' (incancellabili) che iniziano dalla cruenta adolescenza sui gradini di Chiatamone e si polverizzano fra le brutture umane di Gaetano e Giuseppe, i due 'approfittatori' che non meritano nemmeno una lacrima.
Citando il passaggio di una (recente) recensione che Fabio Ferzetti dedica ad altro spettacolo, Rosalinda (senza saperlo) non può che "disegnare la mappa di quell'eterna città barocca e senza fondo, che vive dentro ognuno di noi, e che, per convenzione, chiamiamo 'desiderio' ". Ad oggetto vago, transitorio, non identificabile. Come il crudele  tram di Williams o come (azzarderei) le "Città del mondo" (visibile e invisibile) che Elio Vittorini immaginava e idealizzava nel suo ultimo e incompiuto romanzo.
Quanto alla messinscena tutto 'comme il faut', cioè come deve essere: soffuse luci nel boudoir,  abiti da bancarella,  non sgargianti e non pacchiani, solo qualche lustrino, trucco del viso quel tanto che basta: E poi, tutto un pentagramma di  delicate musiche (d'ambiente) che  fanno da nenia al soliloquio (solitudine non pietistica) della 'coraggiosa', avvincente Rosalinda. Pudicamente amabile, indelebile.

Angelo Pizzuto

Ultima modifica il Giovedì, 26 Aprile 2018 10:01

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