Il giro di vite di Henry James, traduzione e adattamento Carlo Sciaccaluga, regia Davide Livermore. Personaggi e interpreti: Istitutrice Linda Gennari, Mrs Grose Gaia Aprea, Peter Quint Aleph Viola, Miss Jessel Virginia Campolucci, Miles Luigi Bignone, Flora Ludovica Iannetti, il Prologo Davide Livermore, scene Manuel Zuriaga, costumi Mariana Fracasso, musiche Giua, disegno sonoro Edoardo Ambrosio, luci Antonio Castro, regista assistente Mercedes Martini, assistente alla regia Milo Prunotto, assistente volontaria alla regia Irena Carera, direttore di scena Fabrizio Montalto, fonico Edoardo Ambrosio. Nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova in collaborazione con la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
The Turn of the Screw, musica di Benjamin Britten, libretto di Myfanwy Piper dal racconto di Henry James, maestro concertatore e direttore Riccardo Minasi, regia Davide Livermore. Personaggi e interpreti: Quint Valentino Buzza, The Governess Karen Gardeazabal, Miles Oliver Barlow, Flora Lucy Barlow, Mrs Grose Polly Leech, Miss Jessel Marianna Mappa, the Prologue Davide Livermore, scene Manuel Zuriaga, costumi Mariana Fracasso, luci Antonio Castro, Nadia García, regista assistente Giancarlo Judica Cordiglia. Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova in collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova, basato sulla produzione originale del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia. Orchestra e tecnici dell’Opera Carlo Felice Genova.
Visti al Teatro della Corte di Genova, 13 ottobre 2024
Al centro, e a suo naturale baricentro, di questo doppio spettacolo di prosa e lirica che inaugura congiuntamente le stagioni del Teatro Nazionale e del Teatro Carlo Felice di Genova, sta l'omonimo racconto lungo di Henry James, notissima scrittura di 'confine' dai toni oscuri ed enigmatici, fortemente perturbanti, ovvero, se ci rivolgiamo al pensiero di Martin Heidegger, profondamente unheimliche.
Una iniziativa encomiabile che vede le due principali istituzioni culturali della città collaborare in una cordata per offrire al pubblico genovese una esperienza singolare e, nel suo essere collettiva, dal forte valore simbolico.
Il giro di vite, titolo di per sé già ambiguo, fu scritto nel periodo di forse maggior splendore della cosiddetta “Letteratura Gotica” o “Fantastica” secondo la suddivisione di Tzvetan Todorov, quella classica intendo, non quella contemporanea che della prima sembra conservare ormai solo il 'genere' horror, che tra H.P. Lovecraft, Edgar Allan Poe e anche l'Hoffman di Coppelia, alimentava e si alimentava del sorgere prepotente, a metà tra l'ipnosi e la psichiatria classica, della 'psicologia dell'inconscio', del non noto ovvero dell'oscuro cioè che sta in fondo all'uomo.
Un sorgere e crescere, che troverà i suoi insuperati interpreti in Sigmund Freud e poi in Gustav Jung (allievi e discepoli di entrambi compresi fino ai nostri giorni), mentre, passando perché no in tutt'altro diverso contesto, nella Società di allora si andava molto diffondendo l'attitudine alle 'sedute spiritiche'.
Inizialmente considerato dall'autore stesso una sorta di divertissement, fu però un esercizio narrativo ed un esperimento letterario che produsse, a partire dalla sua stessa forma di recupero immaginato di un memoir misteriosamente perduto (ricordiamo in proposito il precedente di Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki), una materia oscura e inaspettata, man mano incontrollabile quale, per restare nel genere e nel tempo suo, lo spirito scisso del Dottor Jeckyll e Mister Hyde di Robert Luis Stevenson che tanto successo cinematografico ebbe ad avere nei decenni successivi alla sua pubblicazione.
Quasi che la stessa narrazione fosse man mano sfuggita di mano ad Henry James acquistando una sua imperscrutabile antinomica autonomia che lo conduceva verso i territori oscuri e sconosciuti del proprio spirito, quelli inevitabilmente al confine del male, sul campo di battaglia dove si misurano dentro di noi, ciascuno con una sua propria forza ontologica e ultrametafisica, la luce e la tenebra, la vita e la morte, il Bene e il Male.
Una narrazione che, quasi involontariamente ma sempre consapevolmente, andava infatti ad intercettare come nelle antiche leggende mitiche ma pure popolari, lo spirito dei morti che ritornano per reclamarci, i soldati del male che ci affascinano per poi distruggerci e alimentare ancora una volta la loro sopravvivenza.
Certamente le forme di questa fascinazione, essendone protagonisti due bambini, potevano concretizzarsi in una sorta di storia di abusi fisici e psicologici, mai peraltro resi espliciti, ma talvolta questa motivazione appare più una giustificazione, una risposta facile per allontanare da noi colpe e sconfitte, per cercare di dimenticare il lato oscuro della vita che invece supera i confini stessi del suo stesso occasionale accadimento, per riguardarci sempre, anche quando crediamo o ci illudiamo di combattere per il bene.
I fini giustificano i mezzi? Una domanda che rimane senza risposta nella figura stessa della giovane Istitutrice che usa le medesime armi dei suoi nemici, credendo di non farsene 'macchiare'.
Del resto il racconto di James sembra andare tanto oltre se stesso da non poter meritare una sua qualche vera conclusione, e così in effetti sembra chiudersi lasciando ancora una volta incustodito quel confine su cui da sempre siamo.
Una suggestione che nasce dalla stessa ambientazione, che entrambe le messe in scena sanno ben suggerire nella loro essenza, con la scenografia a scatole semoventi e talora claustrofobiche e decisamente dark, in cui il racconto si sviluppa, una villa isolata tra i boschi ed uno stagno, nonché dalla stessa 'committenza' del misterioso zio che non vuole essere disturbato e che nell'incarico alla giovane istitutrice sembra voler vedere il modo per allontanare da sé quel confine.
Questa la materia oscura ma incandescente in cui i due spettacoli si peritano di navigare, l'uno sul vascello della drammaturgia, l'altro su quello della lirica, entrambi peraltro 'fantasma' come il famoso “Olandese Volante”, uniti, oltre che dalle scene di Manuel Zuriaga, le luci di Antonio Castro e dai costumi di Marianna Fracasso, dalla regia di Davide Livermore loro doppio capitano, quasi ad affrontare in coerente successione lo stesso 'nemico' su due fronti.
IL GIRO DI VITE
Il primo assalto, come detto, lo porta la drammaturgia di parola nella nuova traduzione e nel nuovo adattamento, all'uopo commissionato, di Carlo Sciaccaluga. Ovviamente la forza del testo di James è tale che l'adattamento, non potendo essere una vera e propria riscrittura, non può prescinderne. Così Sciaccaluga sceglie opportunamente una drammaturgia a quadri che vuole selezionare i momenti salienti della narrazione, conservandone fedelmente la struttura, ma utilizzando i tagli selezionati per inserire, a mò quasi di suggerimenti fuori campo, brani e lacerti scelti in coerenza, tra cui l'Agostino santo studioso e nemico del male per eccellenza ma che il male ha conosciuto. Ma non solo, insieme a lui Shakespeare e Goethe, nonché, tra libero arbitrio e predestinazione, Martin Lutero. Quasi a sottolineare come il Male quando irrompe attraverso l'anima di un bambino, distorcendola, è come se si moltiplicasse esondando come l'onda nello stagno di Bly. Una tale operatività conserva la cripticità del testo, tentando qualche esplicita interpretazione talora un po' forzata, ma si perde in essa la liquidità ante joyciana del flusso di memoria che caratterizza la scrittura, una scrittura che quasi si contorce a cercare la sua propria sincerità. Emblematico a riguardo il tentativo di avvicinare il racconto e di avvicinarci all'evento narrato attraverso lo spostamento temporale dello scenario agli anni 50 del novecento (il decennio tra l'altro della stesura dell'opera di Benjamin Britten che segue la drammaturgia). In un ambiente sonoro e musicale che quasi in onomatopea suggerisce l'attrito rovinoso tra le due forze in campo, come del resto il disegno delle luci con improvvisi scarichi di luminosità che attraversano l'oscurità prevalente senza mai riuscire a vincerla. La recitazione microfonata disturba, credo volontariamente, la dizione quasi ad esprimere icasticamente il fatto che quelle voci provengono non da questa realtà ma da una ultra-realtà in cui ci stiamo affacciando, sensazione che la fantasmatica rappresentazione dei due 'cattivi', quasi inscatolati dentro le mobili pareti, vieppiù rafforza. Così se la mimica e la prossemica dei protagonisti appare ben articolata, la loro voce talora attinge livelli di 'gridato' non del tutto appropriati. La drammaturgia peraltro conserva del testo il suo essere come detto perturbante, ma non offre sempre, forse per un tentativo eccessivo di 'spiegare', sufficienti porte di accesso alla sua nascosta e complicata significanza, e per questo, io credo, ha lasciato, nonostante tutto, una parte del pubblico un po' perplessa e non pienamente convinta.
THE TURN OF THE SCREW
The turn of the screw, regia Davide Livermore. Foto Federico Pitto.
L'Opera di Benjamin Britten invece ha ormai settant'anni (ma non li dimostra) e si avvale del libretto di Nyfanwy Piper, sulla cui struttura Davide Livermore, come da lui stesso dichiarato, ha modellato la regia di entrambe le messe in scena, risultando così anche per questo quella drammaturgica in un certo senso tributaria di quella operistica. Va detto che la stesura musicale risulta in numerosi sensi più 'adatta' rispetto a quella di parola a 'rappresentare' l'intimità del racconto di Henry James, e dunque a meglio avvicinarsi ai suoi reconditi e segreti spazi, perché se la parola, in questo caso, può solo suggerire, la musica riesce a 'dire' quasi fino in fondo ciò che la parola, chioserebbe Edoardo Sanguineti, nasconde in sé. Perchè cantare “vattene” è paradossalmente molto più efficace che gridarlo. Così la narrazione si dipana pienamente ai nostri occhi(orecchi) facendo emergere il mistero non tanto per spiegarlo, quanto per farcene finalmente consapevoli, e la consapevolezza acquisita attraverso un processo di conoscenza, l'elaborazione direbbe Freud, è alla fin fine l'unica cosa che ci può guarire. In questo caso i diversi quadri musicali conservano una maggiore coerenza complessiva legati come sono tra loro dallo scorrere della partitura, un fluire che è la musica stessa della fluviale memoria. Tra l'altro la scelta di Livermore di far chiudere integralmente i sipari ad ogni fine di quadro, se vogliamo quasi in sequenze cinematografiche truffautiane, ha un valore quasi di conservazione e riflessione delle 'impressioni' e suggestioni che ogni quadro produce. La partitura di Britten, che il Direttore e Maestro Concertatore Riccardo Minasi interpreta ancora una volta da par suo, infatti incorpora nelle sue dissonanze ritmiche e nelle sue improvvise aperture melodiche l'intera frizione che distingue il racconto dal suo contenuto, producendo calore ma anche improvviso dolore. Belle le voci, anche quella dei due più 'piccoli', che la difficile partitura mette più volte alla prova. Delle scenografie già abbiamo detto, e delle luci anche. Quasi avesse fino in fondo introiettato la singolare contrapposizione delle due forme allo stesso contenuto, il pubblico ha a lungo applaudito, forse recuperado un po' dei suoi applausi per la drammaturgia.
Per concludere un doppio spettacolo che, come dal cratere di un vulcano, si affaccia sulla materia incandescente e difficile cui Henry James si è trovato di fronte quasi con sorpresa, e da affrontare con il rispetto dovuto, senza infingimenti, vie di fuga, facili interpretazioni o limitanti giustificazioni, lasciando che il racconto ci porti a ciò che non ha nome (o meglio a ciò di cui oggi soprattutto abbiamo voluto dimenticare il nome) e ce lo mostri affinchè pronunciamo quel suo nome (“Peter Quint il demonio”) in quanto la conoscenza e la consapevolezza, anche nel dolore che ne consegue, è, con tutti i nostri limiti, l'unico modo per contenerlo e interromperne la catena.
Maria Dolores Pesce