di Marguerite Duras
regia, scene e riduzione teatrale: Massimo Luconi
musiche originali: Miro Cosottini, costumi: Paola Marchesin
71° Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, Teatro Goldoni, 21 e 22 maggio 2008
Genova, Teatro Duse, dal 13 al 30 aprile 2010
Roma, Teatro Valle, dal 11 al 23 maggio 2010
Ci sono testi che, indipendentemente da chi li ha scritti, si compenetrano in modo particolare con determinati artisti, tanto da appartenere a loro più che a qualsiasi altro, autore compreso. E' il caso di Le douleur, Il dolore, di Marguerite Duras, scrittrice innovativa e drammaturga che si è appollaiata con facilità e felicità sulla spalla di Mariangela Melato, interprete al Valle del monologo nell'ambito della monografia a lei dedicata dall'Eti. Patrice Chéreau ha diretto in Francia, nello stesso pezzo, Dominique Blanc. Ma c'è da scommettere che Mariangela, avvolta nel mantello della memoria individuale e oggettiva, nonché vibrante di ricordi tormentosi forse comuni a tutti, sia difficilmente uguagliabile. In scena, una Donna attende il ritorno del proprio compagno dalla guerra. Il tempo passa. Lei si concentra sull'organizzazione, in quadri emotivi e dinamici, ma ordinati, di ciò che ha provato e prova, di ciò che soffre, di ciò che, nel bene e nel male, osa sperare. E affiorano le domande. Il ricordo, la sua ricostruzione, sono meglio o peggio della dimenticanza? Gli appunti mentali si mischiano con quelli scritti. La ripetizione gareggia con l'autocensura; la necessità di corteggiare l'oblìo ostacola lo sforzo di recuperare il passato. Ma bisogna vivere: la vita è imperativo da onorare prima di qualsiasi altro. La Melato dà senso e insieme impalpabilità a tutto questo, sangue al senso di privazione, ali alle contraddizioni, certezza alla priorità dell'esistenza. Così che Le douleur, e la Duras teatrale, cambiano leggermente di segno, si fanno meno dubbiosi, meno oscillanti, per appartenere, più e meglio, alla nostra attrice. Da vedere. Con lei, Cristiano Dessì. Le repliche vanno avanti al Valle fino al 23 maggio.
Etta Cascini
È un profondo sforzo di memoria e di auto-rappresentazione, quello che fa Mariangela Melato col monologo Il dolore, nato nel 1944-45 come racconto-diario di Marguerite Duras in attesa logorante di conoscere le sorti del marito Robert deportato a Dachau, materia convertita in a solo dal regista Massimo Luconi al Maggio Fiorentino. Lei è una concentratissima intellettuale in nero che s'aggira ansiosa o alterata tra libri, scrivania, telefono e tronco di traverso, indugiando su pieghe apprensive cui segue uno scientifico travaglio di assistenza riservata all'uomo miracolosamente superstite. La regia favorisce l'angoscia di un'eroina tragica moderna tra offese belliche e sociali, mentre ad esempio la lettura di Patrice Chéreau con Dominique Blanc accentuava l'intimo, razionale calvario.
Resta il rigore alto e l'enfasi della Melato, cui fanno un po' torto, nell'adattamento, la mancata confessione al reduce del nuovo rapporto di lei con un loro amico (frase omessa: «Non sarei tornata a vivere con lui»), musiche superflue, e un microfono. Ma è una grande impresa di un'artista che visita dal di dentro una grande scrittrice.
Rodolfo Di Giammarco
Il dolore di Marguerite Duras è un' occasione per definire l' area espressiva di Mariangela Melato che, diretta da Massimo Luconi, ne è l' interprete. Perché la Melato lo interpreta nell' ambito di una rassegna del Maggio musicale intitolata «Donne contro»? Lei stessa di sé dice: «Non sono una donna conformista, allineata, ma non credo di poter essere una "donna contro". Lo sono certi personaggi come Ingrid Betancourt, la Duras stessa». Poco prima aveva detto di non amare i monologhi: «Non avevo mai voluto interpretare un monologo, preferisco lavorare con altri attori, appoggiarmi, interagire con loro». Insomma, un carattere quieto, amante di ciò che viene condiviso. La Duras è tutto il contrario. In termini psicologici, la Duras è fiammeggiante. In questi giorni Feltrinelli ha pubblicato i suoi Quaderni di guerra. Vi sono le tormentose tappe di avvicinamento a Il dolore che sembra uscito di getto da un irresistibile impulso. La Duras è tanto fiammeggiante quanto oculata, con i piedi per terra, ricca di un cospicuo senso dell' equilibrio. Una manna per i filologi, ma soprattutto per noi, per il lettore comune. Caratteristica de Il dolore è, sì, quanto vi viene raccontato, l' attesa di una donna, la sua speranza e paura che il marito Robert, deportato in Germania nel 1944, più non torni. Ma di maggior momento è la sua specifica intensità, è lo stile concitato, incalzante, tutto sincopi: senza tregua, fino alla fine. In una scena semivuota, in cui non vi sono che elementi della vita quotidiana pronti a caricarsi di un senso simbolico (una scrivania, un telefono, un albero rovesciato a terra, una quantità di libri), in questa scena la Melato, nerovestita, si muove sia con metodo sia preda di crisi improvvise. Aveva cominciato dicendo di aver scoperto Il dolore l' estate scorsa, e di non essersene più separata, poi se ne era messa a leggere una pagina, poi era entrata tutta intera nella finzione. Questa progressione è l' indice del suo modo d' impossessarsi di un testo: se ne investe. Ci dice: io sono io, e lui è lui; ma poi lui diventa io. Fatalmente, lungo la china dell' immedesimazione, benché controllato con autentica maestria, l' elemento emotivo diventa dominante. Lo è anche ne Il dolore, lo abbiamo detto. Ma nel racconto vi è un altro tratto, che lo rende unico in ambito novecentesco. La Duras fa sul serio, va fino in fondo al suo dolore. I commentatori trascurano, mi sembra, il secondo tratto. Come per Luconi, e per la sua interprete Melato, l' ebbrezza deriva dalla voce tardivamente conferita all' eterna Penelope che è in ogni donna. Ma la Duras non è una Penelope qualunque. Il personaggio D., cioè Dionys Mascolo, colui che l' accompagna nella traversia dell' attesa e che sarebbe diventato il padre di suo figlio, era là, in un angolo. Quando Robert Antelme torna, quando la felicità è così piena da esserne impossibile l' espressione, Marguerite comunica a Robert che ama Dionys, che lo lascerà, che vivrà con quel vecchio amico di lui e di lei. Questa gigantesca sprezzatura morale sta come in un cono d' ombra. È, per il sentimento comune, insostenibile? Forse sì, è però il suo esito a conferire a Il dolore la grandezza, vorrei dire la sua modernità futura. La Melato su questa soglia si arresta. Le interessa meno. O non le interessa affatto. Cruciale, per lei, è il dolore che si trasforma in attesa, non già l' attesa che s' era trasformata in amore, in verità. Più che la verità, alla Melato, in quanto attrice, interessa la verosimiglianza dei sentimenti, quella da tutti conosciuta.
Franco Cordelli
Ancora una volta il glorioso Maggio Musicale Fiorentino, ormai giunto alla 71a edizione, entra nella Storia: a partire da un suo spettacolo, più precisamente dal 20 di questo mese, potremo infatti - forse - ufficializzare la fine del teatro, o perlomeno del teatro italiano; o perlomeno del teatro italiano così come lo abbiamo ereditato. Esagero? Giudicate voi dalla mia esperienza. Mi sono recato al Goldoni, antica sala-gioiello con palchetti, per ascoltare la meravigliosa Mariangela Melato alle prese con un testo-confessione di talvolta straziante, talvolta provocatoria, e sempre coinvolgente intimità: Il dolore di Marguerite Duras, ossia quel diario che la scrittrice tenne tra il '45 e il '46 e che rese pubblico solo quarant'anni dopo. E' la storia degli ultimi giorni di guerra, che la Duras trascorse nell'angoscia: suo marito Robert (nome che immagino lei pronunciasse alla francese) era stato arrestato dai nazisti e incarcerato a Dachau. Sono registrate le angosce dell'assenza e dell'incertezza, poi dell'arrivo di notizie tragiche - sembra proprio che Robert sia morto -; poi c'è la cronaca del suo ritrovamento miracoloso, ridotto quasi un cadavere vivente, del suo lento recupero... non senza riflessioni anche alla Fallaci, di cieco furore contro i tedeschi, mentre il reduce parlerà piuttosto di terribile manifestazione dell'animale uomo. Cronaca a caldo, appassionata, che la Duras vergò certo per se stessa, senza pensare di condividerla; e la stessa Melato prima di farcene partecipi dice che tenne il libretto sul comodino per mesi, durante i quali non cessò di interrogarlo. Quale occasione più teatrale di questa? Di un'altra somma attrice ma inglese uno che la diresse sia in cinema sia in teatro mi disse: "Quando fa cinema è concentrata, attira il pubblico a sé; quando fa teatro si proietta in fuori, raggiunge ciascuno spettatore come se stesse parlando solo per lui."
Ora, proprio questo mi aspettavo da Mariangela, che proprio questo del resto normalmente fa. Ma non stavolta! Perché stavolta ha un microfono appiccicato alla guancia, e nel piccolo spazio squisito la sua inconfondibile voce piomba deformata come quella di un comiziante, al punto che ci vuole un po' anche solo per fare l'orecchio e decifrarla. Ora, il punto non è tanto che il risultato è straziante; il punto è che quando una cosa simile avviene, il teatro è finito, se per teatro si intende spettacolo dal vivo, comunicazione diretta, interprete che si consegna inerme e rischia. Non sono manicheo, l'amplificazione è lecita, necessaria e persino gradevole in tanti casi - grandi spazi, musical dove la recitazione è approssimativa, oratori alla Marco Paolini. Ma con un testo confidenziale e senza la scusa di una cattiva acustica o di un luogo improprio, significa rinnegare la natura di un medium che era rimasto immutato per migliaia di anni. Requiescat in pace.
Per il resto, competente regia di Massimo Luconi, anche riduttore e scenografo - uno studio con carte, macchine da scrivere e telefoni neri che si apre su squarci evocanti sinteticamente la devastazione. In camicione e pantaloni neri, e in eccellente forma fisica, la protagonista ha iniziato i 70' del suo tour de force ricorrendo al mestiere (forse anche lei sentiva che il contatto era forzato), poi ha preso un buon ritmo e via via è riuscita a risultare convincente e commovente. Apoteosi alla fine: è evidente che non tutti la pensano come me.
Masolino D'Amico