di Alberto Bassetti
Regia di Mario Mattia Giorgetti
Con Chiara Claudi e Desirée Giorgetti
Giovedì 27 Agosto 2009
Castello di Donnafugata Ragusa 2009
Le attese rarefatte di Beckett, la spinta regressiva e le tensioni rimemoranti di Cechov: "Le due sorelle" di Alberto Bassetti, messo in scena per "Favole e vita – viaggio nell'immaginario" da Mario Mattia Giorgetti al Castello di Donnafugata di Ragusa, lo scorso 27 Agosto, ha segnato un'importante tappa della Fondazione siciliana Carlo Terron, nata a Giugno 2009, in collaborazione con la rivista Sipario.
Un testo intelligente, ricco di rimandi letterari, eppure genuino e sincero nei temi proposti che incontra una regia limpida, sobria, capace di mettere a nudo i fatti e le cose cogliendo, allo stesso tempo, un'autenticità profonda, frutto di un raro compromesso tra realtà e astrazione poetica. Il testo ha, infatti, il dono prezioso della sintesi, della rappresentazione miniaturizzata di un tema, di un concetto, eppure è alimentato da opposte tensioni che lo rendono vivo e mosso. La regia è sfumata, attenua i contorni col filtro leggero della poesia, un velo sopra la realtà, eppure così rappresentativo della realtà. Due sorelle, due attrici costrette a svendere la propria compagnia, una sognatrice, l'altra lucida e disincantata, una esuberante e tutta presa dalla vertigine esaltante dei propri ideali artistici, l'altra, al contrario, sopraffatta dalla vita, sempre in bilico in un'esistenza che non riesce a dominare.
In un presente, che in verità è più un non-tempo, avvolto nella nebbia di un irreale immobilismo, due diverse memorie si incrociano, quella dell'infanzia idilliaca di Francesca, e quella "incattivita", amara fino ai limiti del grottesco di Susanna, che, nell'invenzione bugiarda e beffarda della realtà, nasconde un forte senso di inadeguatezza alla vita, creando, nello stesso tempo, risvolti tragicomici e spassosi rovesciamenti umoristici.
Tra la realtà e la sua reinterpretazione in chiave simbolica c'è la distanza di un passo che si può varcare o meno, sullo sfondo, decadenti rovine di un teatro, parvenza di un luogo assoluto che si scioglie in mito. Una scala segnala l'anelito artistico di Francesca, è da lì che declama Cechov, vagheggiando forse la statura morale di quelle eroine e finendo per riassumere in sé molte delle istanze di quegli stessi personaggi, ma, in primo piano, una qualunque strada su cui le due donne aspettano un autobus che mai arriverà, per portarle verso quella "casa", nido e rifugio, ultimo legame con un'infanzia irrimediabilmente "trascorsa", spazio al di fuori del tempo, consacrato e reso unico dalla memoria. Ma, come nel "Giardino dei Ciliegi", incombe sulla casa l'incedere inesorabile di uno squallido presente che non è all'altezza dei sogni infantili, prevarrà lo sfacelo economico delle due donne, della loro compagnia e, forse, del Teatro.
E non pare azzardata né tanto meno scontata la lettura della piéce come metafora del teatro stesso e delle condizioni in cui versa, racconta di aspirazioni che si infrangono sulle dure barriere del fatto economico, di tentativi artistici che cozzano contro la sordità di una società usurata, in "crisi", giunta alla decadenza, dove la passione è scambiata per follia, racconta di chi è costretto a barattare tutto, anima, emozioni, a svendere i sogni in cambio di nulla.
Ma se la candida Francesca, cui Desirée Giorgetti ha saputo dare esuberanza ed equilibrio, leggerezza e senso di responsabilità, tali da farne un personaggio sfaccettato e complesso, trova il coraggio di guardare oltre, ma senza facili illusioni, nello sguardo straniato e lucidamente annichilito di Francesca, una bravissima Chiara Claudi, si leggono cattiveria, senso tragico di chi si sente colpevole della propria rovina, innocenza, peccato e autoassoluzione, fino alla presa di coscienza finale, fatale ma, forse, non definitiva e assoluta.
Filippa Ilardo