da F. Dostoëvskij
Versione, riduzione teatrale e regia di Glauco Mauri
Scene di Alessandro Camera.
Costumi di Simona Morresi.
Musiche di Arturo Anneghino.
Con Glauco Mauri, Roberto Sturno, Cristina Amone, Mino Manni, Simone Pieroni, Odoardo Trasmondi.
Prod. Compagnia Mauri-Sturno. In tournée per tutta la stagione 2008
Dostoëvskij, ad un primo approccio - e nonostante la sinuosità delle sue evocazioni - sembra "negato" al linguaggio dell'immagine in movimento, sia essa teatrale che cinematografica, in ragione della voluttuosa tortura intellettiva, dinamico contraddittorio del suo tessuto raziocinante, trasposti in romanzi mastodontici (Luca Ronconi è stato l'unico regista in grado di "addomesticarli" verso una ritualità di teatro indiretto, realista ma antinaturalista). "L'uomo - è il pensiero dello scrittore - è il più enorme mistero da risolvere. Ma è un mistero che va risolto per chi voglia essere un uomo". Quasi un ossimoro.
Non avrebbe senso impelagarsi in molte citazioni se non per "tirar la volata" alla robusta impresa di Glauco Mauri per una delle rare trasposizioni teatrali di un romanzo che ha il suo nucleo fondante (e attualissimo) nella "estemporaneità", nel "libero arbitrio" di un atto criminoso, apparentemente non meditato, in realtà "epilogo" di un interiore dissidio tra indigenza materiale ed esasperata stima di se stesso: in un'ottica di "superomismo" che rende l'assassinio della vecchia usuraia (e della sorella) da parte del frenetico, fibrillato "eterno studente" (o "giovane povero") una sorta di atto gratuito e comunque indice di un ribellismo individuale. Di cui Dostoëvskij già prevede quello che drammaturgicamente appare un "avvitamento su se stesso", una ostinazione-ostentazione di innocenza (rispetto ad un gesto che "non paga") che molto ha da spartire con innumerevoli casi di cronaca recente.
L'adattamento e la regia di Glauco Mauri (nello spettacolo captato allo Stabile di Catania) hanno il merito di una "semplicità" espressiva che, dinanzi al misfatto, incute una strana perturbazione di disagio e buonumore. Grazie, soprattutto alla colorita, rubiconda interpretazione che Mauri (forse ispirandosi e decantando in arguzia, apparente bonomia un bozzetto di Grosz) assegna al personaggio di Porfirio, non più inquirente sadico, sornione, ambiguo, ma esplicito confidente di una "detective story" che (alla maniera di Hitchcock) si stringe come paterno "nodo alla gola" sulla stordita coscienza di un Roberto Sturno (Raskolnicov) qui al meglio della sua maturazione espressiva, densa di soprassalti, semitoni, repentine sovraesposizioni all'avversario. I cui metodi di indagine esulano, volontariamente, da ogni rovello esistenziale, da quel "cul de sac" di pensiero ed azione in cui Dostoëvskij ama impelagare i suoi personaggi, talvolta tradendo le interiori pulsioni di un (per lui) inammissibile manicheismo, della sottile empatia con cui ama convivere con i suoi mille "cuori di tenebra".
La sintesi e la parcellizzazione della messinscena (in brevi "flash" e incalzanti, saettanti sequenze), la sua dichiarata impossibilità di confrontarsi con un eventuale e "monumentale" copione, tutto da riscrivere, essenzializzano il racconto di "Delitto e castigo" ad una sorta di "parabola" in (elementari) costumi d'epoca sulla inutilità e ineludibilità di un comportamento dissennato, che infoltisce la propria "interiore scenografia" di personaggi-ultimi, quali ladri, prostitute, timidi idioti, la cui pienezza di vita consiste probabilmente in quella (incommensurabile) porzione di vita che l'imparità sociale, iniquità di ogni assetto civile depositano alla vulnerata coscienza di colui il quale osa, e per un istante, sfidare le regole del gioco, barare con una sorte che raramente "custodisce" i devianti, superare la linea d'ombra oltre la quale il riscatto dalla propria condizione è solo l'anticamera di un inferno logisticamente peggiorato.
Come sarà per Raskolnikov nel suo conseguente soggiorno in Siberia, di cui lo spettacolo si guarda bene dal prolungarsi, onde evitare (oltre alla durata) barbosi sermoni di rettitudine. Laddove la "legalità" è sempre più privilegio di chi può permettersela o poco chiede al donde e al dove delle sue intime miserie. Connaturate o "ereditate"?
Angelo Pizzuto