Uno spettacolo presidenziale
Produzione Fabbrica
di e con Ascanio Celestini
Suono di Andrea Pesce
In scena a Genova fino a venerdì primo novembre al Teatro della Corte. Sabato 2 e domenica 3 novembre al Teatro dell'Archivolto
Genova, Teatro della Corte 29 ottobre 2013
La sala della Corte è gremita per la prima genovese dell'ultimo spettacolo di Ascanio Celestini di un pubblico insolitamente giovane. L'attore entra in scena con le luci accese e gli ultimi spettatori che prendono posto, e comincia un lungo prologo che procrastina il "vero inizio" dello spettacolo. Spegnete i cellulari, non fate fotografie, per favore. Ed ecco che ci bombarda, come è suo costume, con una sbrodolata di parole politicamente scorrette e di feroce sarcasmo. Celestini ci mette di fronte alle nostre ipocrisie.
"Io sono un uomo di sinistra", è questo l'assunto che si ripete ad ogni attacco: ma sono razzista, omofobo e classista come quelli che cerco di combattere. Facciamo parte di una sinistra che, pare di leggere la rubrica di Curzio Maltese sul Venerdì, non ha mai saputo opporsi. Ci strappa una risata mentre ci spoglia delle nostre convinzioni di essere dalla parte giusta.
Finalmente le luci in sala si spengono e si entra nei personaggi. In una nazione immaginaria gli inquilini di un palazzo sentenziano sulle loro vite. La pioggia cade costante e i cadaveri bloccano il portone. Fuori c'è la guerra civile. Ascanio si avvicina alla prima postazione luce e dà voce all'Uomo qualunque, senza ambizioni se non quella di essere "normale". Si sposta verso la seconda piantana e ascoltiamo l'Uomo con l'ombrello che umilia, fino a schiacciarlo sotto i piedi, chi l'ombrello non ce l'ha.
Il ricatto come arma del potere, la mancanza di aspirazioni dei governati, il clima di terrore che fa girare con la pistola in tasca. Questa parte centrale in cui si cerca di sublimare il rapporto sudditi-tiranno attraverso la metafora risulta più difficile da seguire. Le parole mangiate e sputate mitragliano il pubblico e si fa un po' fatica a tenere il passo.
L'ultima tappa è quella del podio da cui il dittatore imbonisce il popolo che celebra festante la sua ascesa al potere. Celestini è magistrale nel confezionare il discorso del tiranno che senza vergogna pugnala col sorriso. Elogia i valori e gli ideali del proletariato: parole meravigliose, le avete inventate voi: la lotta di classe, la rivoluzione. Peccato che non siate riusciti a portarle a compimento. Noi siamo ancora qui. E la cosa peggiore è che non siamo poi così diversi. Anzi, siamo uguali. Siamo parte di un meccanismo malato. Siamo tutti colpevoli.
Ci congeda con l'insegnamento dimenticato di Gramsci che non abbiamo saputo seguire. Ah le cose che avrebbe fatto: un poeta come ministro della cultura, un pacifista come ministro della difesa, un contadino come ministro dell'agricoltura, una vittima delle stragi irrisolte come ministro della giustizia. Ma intanto il rumore della pioggia lascia il passo al clamore della folla che sale a legittimare il nuovo leader e cancella la memoria e le buone intenzioni. "Passano le frangette delle donne, passano come al porto i marinai, ma carota e manganello no non passeranno mai".
Marianna Norese