di August Strindberg
traduzione e adattamento Roberto Alonge
regia Luca Ronconi
con Adriana Asti, Giorgio Ferrara, Giovanni Crippa
scenografia Marco Rossi
costumi Maurizio Galante
luci A. J. Weissbard
suono Hubert Westkemper
produzione Spoleto57 Festival dei 2Mondi
Teatro Metastasio Stabile della Toscana
in collaborazione con Mittelfest 2014
al Teatro Caio Melisso di Spoleto per il 57° Festival dei due Mondi dal 27 giugno al 6 luglio, 2014
Non esageri Giorgio Ferrara a voler fare l'attore al Festival dei due Mondi di Spoleto. Gli basti solo averlo resuscitato nel 2008 assumendo l'incarico di direttore artistico e avergli fatto compiere un salto di qualità indiscutibile, in particolare nel settore Teatro, avendo come fiori all'occhiello le presenze continue di Bob Wilson e Luca Ronconi, ma anche quelle di osannati attori e attrici internazionali del calibro di Jeanne Monroe, Isabelle Huppert, Gerard Depardieu e molti altri. Non esageri Ferrara, dicevo, non per un conflitto d'interessi ma perché fare l'attore non è affare suo, non regge sulla scena, anche se a dirigerlo è lo stesso Ronconi come già avvenuto altre volte e come è avvenuto adesso al Teatro Caio Melisso per Danza di morte o Danza macabra che dir si voglia di Strindberg, in cui cerca di interpretare il ruolo del capitano d'artiglieria Edgar, un uomo che s'è fatto da sé e depresso in parte per non essere mai assurto al grado di maggiore. Non deve soprattutto apparire Ferrara accanto ad Adriana Asti, sua moglie in scena e anche nella vita, qui nei panni di Alice, una ex attrice di teatro di cui si sconoscono le sue reali potenzialità, forse soltanto sacrificate alla sicurezza del talamo, perché c'è il rischio che anche lei subisca una regressione, una sottrazione alle sue innate doti di attrice intelligente e ironica. Certamente in questo spettacolo lo zampino di Ronconi ha giocato un ruolo determinante, avendo trattato l'inferno coniugale strindberghiano come un vaudeville, quello de I signori Boulingrin di Courteline (andato in scena a Parigi al Théâtre Grand Guignol nel 1898, due anni prima di Danza macabra) in cui marito e moglie bisticciano non appena giunge in casa loro il signor Des Rilettes, diventato subito il capro espiatorio su cui vomitare crucci e risentimenti d'una qualsiasi coppia piccolo borghese. Solo così si spiegano le risate di parte del pubblico quando emetteva voce il capitano Ferrara e la moglie Asti, chiusa nel suo abito anni '20 ( i costumi erano di Maurizio Galante) con annessa parrucca nera plissettata sulla fronte, lo stava ad ascoltare con un'aria incredula, smarrita quasi, all'interno d'una torre rotonda di una fortezza in pietra grigia, accanto ad un mobilio da 2 novembre, in cui spiccavano nella scena di Marco Rossi che subiva dei veloci spostamenti, avanti-dietro, in direzione delle quinte, a seconda della varie sezioni della pièce: un divanetto in pelle nera, un telegrafo nero, un alto letto in metallo nero con i quattro angoli terminanti con punte a lancia, una dormeuse nera, un pianoforte nero, una sedia nera, una lampada tipo faro naturalmente nero: il tutto avendo alle spalle un fondale materico dai colori verdognoli, secondo gli stilemi "poveri" di Burri o Kounellis. Una location da cappella funebre per due persone frustrate, insieme da 25 anni, quasi un carcere a vita, pronti a mettere in scena anche per un solo spettatore, il cugino Kurt (vestito dal lungo Giovanni Crippa dall'aria draculesca) la loro vita maritale alle soglie delle nozze d'argento. Certamente il testo è molto ambiguo e si presta a varie interpretazioni. Potrebbe essere in primis un gioco al massacro d'una coppia con i neuroni scoppiati o con le cellule diventate ormai tumorali, che pur di vivere insieme si strugge, si dilania, si strazia più a parole che con i fatti. Potrebbe essere una sorta di manifesto della coppia in crisi del 20° secolo. Un paradigma che i vari Pirandello, Sartre, Pinter, Ionesco, Beckett, tratteranno più tardi ognuno secondo il proprio stile, razionale, esistenziale, claustrofobico, assurdo, metafisico. Insomma Danza macabra anticipa quanto s'annida nei comportamenti della coppia contemporanea, con quel gusto sadico di confessarsi, di raccontare ad una piccola platea di ascoltatori - magari nelle medesime condizioni del narratore - particolari scabrosi, intimi, pruriginosi e stuzzicanti, cercando negli altri complicità e comprensione, affermazione del proprio "io". In una sola parola un motivo per esistere e vivere. " Cosa dice il dottore?" Esclama più d'una volta Alice all'ennesima crisi anginosa di Edgar, rivolgendosi al cugino Kurt. " Che può morire". E' la risposta di quest'ultimo. E Alice: "Dio sia lodato!". Certo, questa donna desidera la morte del marito che l'ha lusingata, sedotta, che l'ha fatta vivere da reclusa, che la stava quasi per ammazzare gettandola in mare e che l'ha privata d'ogni suo interesse. E così ogni "ospite/spettatore" diventa un soffio di libertà, qualcuno da ammaliare magari danzando la Marcia dei Boiardi, come farà col timido Kurt che ad un tratto, anche lui per alcuni istanti tramutatosi in Nosferatu e che scapperà da quel luogo infame e da quel demonio. Il "temporale" è passato, "il gioco delle parti" è finito e tanti "giorni felici" rischiariranno l'esistenza di questa coppia "normale". Che continuerà a mantenere rapporti col mondo esterno col solo ticchettio del telegrafo, compresi i loro due figli che non compariranno mai in scena in questa Danza macabra.
Gigi Giacobbe