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IL SUONO EPPUR SI MUOVE NELLO SPAZIO DI PROMETEO. -di Errico Centofanti

Venezia, Chiesa di San Lorenzo, anno 1984: Luigi Nono alle prove per Prometeo (foto Lorenzo Capellini / courtesy Archivio della Biennale). Venezia, Chiesa di San Lorenzo, anno 1984: Luigi Nono alle prove per Prometeo (foto Lorenzo Capellini / courtesy Archivio della Biennale).

A inizio d’anno, nell’ultima decade di Gennaio, abbiamo incontrato il decennale della scomparsa di Claudio Abbado e il centenario della nascita di Luigi Nono. Piú in là, in Settembre, maturano quarant’anni dal Prometeo, la rivoluzionaria opera lirica creata per la Biennale di Venezia dal quintetto di straordinari artisti e intellettuali che, insieme con Nono e Abbado, schierava Emilio Vedova, Renzo Piano e Massimo Cacciari.

Nel 1984, per far nascere il Prometeo, Nono aveva adunato Massimo Cacciari, che creò il testo, avvalendosi anche di Eschilo, Friedrich Hölderlin, Walter Benjamin, e poi Renzo Piano per l’invenzione del “luogo-strumento”, Emilio Vedova per lo studio delle luci e Claudio Abbado per la direzione dell’orchestra. L’imponente lavoro prodotto da loro e da tutti gli altri artisti coinvolti, nonché dagli ingegneri del suono e del live electronic, generò un evento fuori dal comune, sul quale non s’è mai smesso di parlare e riflettere.

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Traduzione disegnata dell’idea di Renzo Piano per lo spazio musicale destinato alla creazione di Prometeo (courtesy Archivio della Biennale).

Teatro e rivoluzione

Quello di quarant’anni fa, fu effettivamente un Prometeo rivoluzionario. Lo fu per ragioni molteplici e in primo luogo perché volle porre gli spettatori non “davanti” ma “dentro” il suono, come pure fu rivoluzionario perché la realizzazione di quella che Nono definiva «una tragedia composta di suoni, con la complicità di uno spazio» comportò l’allora inusitato apporto di un computer “suonato” in tempo reale, come fosse uno strumento musicale, per muovere nello spazio il suono catturato dai microfoni.

In teatro, a differenza dei consorzi umani, che da sempre ne hanno pressanti quanto raramente ascoltate necessità, le rivoluzioni sono frequenti e perciò quasi mai troppo appariscenti, sebbene facciano egregiamente il mestiere che gli è proprio, cioè di riverberare, nella società di cui sono specchio e incubatrici, impulsi verso ogni sorta di rigeneranti mutamenti.

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Lo spazio musicale ideato da Renzo Piano per Prometeo: veduta parziale (courtesy Archivio della Biennale).

Certo, non è che quella del Prometeo sia stata la prima o l’unica delle rivoluzioni in teatro: tanto per citarne una, fervono ormai da assai piú d’un secolo i tentativi sul come infrangere la tradizione classica della separazione tra scena e pubblico, la quale da Nono veniva sofferta come retaggio di una rappresentazione rituale e “antidemocratica” con «i fedeli che assistono e l’officiante che celebra». Rivoluzionaria, in questo caso, non era l’idea in sé, già largamente dibattuta e sperimentata, specialmente in campo non musicale, dalle avanguardie russe, nelle sperimentazioni di Gropius o nel teatro di Piscator e in quello di Brecht, come nella drammaturgia di Pirandello, nonché, in anni recentissimi, con la moltiplicazione dello spazio scenico teorizzata da Richard Schechner.

Del resto, puntando lo sguardo in casa nostra, quindici anni prima del Prometeo, il 4 Luglio del 1969, a Spoleto, nella ex chiesa di San Niccolò, per il Festival dei Due Mondi, c’era stato l’Orlando furioso di Luca Ronconi e Edoardo Sanguineti, una messinscena tra le piú movimentate nella storia del teatro, con gli spettatori, pensati come una sorta di “scenografia vivente”, collocati nell’interno dell’area scenica, non seduti ma in movimento, tra e con gli attori e le macchine in legno di Uberto Bertacca.

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Anno 1984: Luigi Nono, Massimo Cacciari e Renzo Piano mentre viene costruito lo spazio musicale per Prometeo (foto Ishida Shunji / courtesy Fondazione Renzo Piano).

In ogni caso, è fuor di dubbio che quel Prometeo del 1984, come riconosciuto pure da Roberto Cicutto, Presidente della Biennale, nel presentarne la ripresa commemorativa del Gennaio di quest’anno, fu «uno di quei momenti che determinano un prima e un dopo e segnano un cambiamento». Dunque, sia lecita e provvida cosa soffermarsi su quel Prometeo lí, senza che le fortunatamente tante altre gesta rivoluzionarie del teatro invochino il supporto di Don Giovanni per obiettare che «chi a una sola è fedele / verso l’altre è crudele».

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Studio di Renzo Piano per l’inserimento dello spazio musicale di Prometeo dentro la Chiesa di San Lorenzo (courtesy Archivio della Biennale).

Una sorta di arcipelago

Ebbene, cos’è quel volere gli spettatori non “davanti” ma “dentro” il suono e com’è che si realizza, venendo cosí a costituire la ragion d’essere del Prometeo del 1984 e della sua sostanza rivoluzionaria?

Alla base di tutto c’è il pensiero musicale di Luigi Nono, che insegue qualcosa di flottante tra intuizione onirica e consapevolezza tecnologica: «È l’inudibile o l’inudito che lentamente, o no, non riempie lo spazio, “ma lo scopre”, lo svela. E provoca improvviso inavvertito “esser nel suono”, e “non iniziarlo” a percepire, sentirsi parte dello spazio, “suonare”. Sicuramente diverso, ma simile a quanto avviene all’inizio della Prima di Mahler, con il La a piú ottave e in armonici: non vi è inizio, ci si trova subitamente nel grande respiro di una infinita vallata».

Ovviamente, nasce la necessità d’inventare qualcosa che non esiste ma che sia capace di tradurre in concretezza il pensiero di Nono.

Renzo Piano la racconta cosí: «Nono e Cacciari pensano allo “spazio musicale” per “Prometeo” come a una sorta di arcipelago». Infatti, «quando ci si trova su di un’isola interna a un arcipelago, comunque si volga lo sguardo, non è possibile abbracciare il sistema nella sua interezza, istantaneamente». Tuttavia, «è possibile sentire la presenza di ciò che sta alle nostre spalle» per cui, «vediamo sempre e solo una parte del tutto, ma possiamo percepire il tutto cogliendo coi nostri sensi gli effetti delle cause a noi invisibili». In tal modo, il pubblico sta al centro dell’arcipelago, «circondato da una scena musicale che non può mai essere vista tutta insieme ma che sempre può essere percepita nella sua interezza grazie alla musica che, come la brezza marina, nasce alle nostre spalle per manifestare i suoi effetti davanti i nostri occhi». Ovviamente, da questa impostazione consegue l’itineranza di solisti e cantanti, i quali «devono potersi muovere intorno agli spettatori, che stanno seduti comodamente».

Con la sua musica, Luigi Nono voleva circondare lo spettatore, voleva che nascesse da diversi punti, utilizzando il suono delle voci umane e la sua simultanea manipolazione elettronica. Tutto questo imponeva la necessità di un luogo che consentisse un nuovo rapporto tra esecuzione musicale e spettatori, sovvertendo la concezione di spazio e funzione della sala tradizionale.

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Venezia, anno 1984: lo spazio musicale per Prometeo installato nella Chiesa di San Lorenzo (courtesy Archivio della Biennale).

Il luogo-strumento

Nella mente di Piano comincia a profilarsi la fisicità di uno smisurato strumento musicale: «ho immaginato qualcosa di simile a un violino o, meglio, a un liuto o a una mandola: uno strumento musicale costruito talmente in grande da contenere dentro di sé l’intero spettacolo, pubblico compreso; la musica che vi nasce pone naturalmente in vibrazione quest’enorme cassa armonica e, con essa, i musicisti e gli spettatori, letteralmente integrati al corpo risonante».

Nono si rende conto che la sua immaginazione, coordinata con quella di Renzo Piano, ha infine trovato la strada verso quanto vuole e sa di poter creare: «ascoltare la musica, con diverse probabilità di trasformazioni in tempo reale; altra percezione possibile, dall’interno, nelle “viscere” del fantastico strumento musicale, “e non scenografia”, creato da Renzo Piano».

E ora eccolo il luogo-strumento di Prometeo. Piano lo lascia apparire «quasi come una nave, non finita: una nave in cantiere, non uno spazio perfetto e irremovibile», perché «questo è uno dei temi del lavoro di Nono: il rapporto tra ordine e disordine, tra regola e trasgressione, tra interezza e frammentarietà; la nave è intera perché è un unico sistema, ma è anche frammentata perché è in costruzione». Inoltre, «la nave appare ampiamente perforata, cosí da lasciar passare il suono, non rifletterlo immediatamente», il che determina «un lungo tempo di riverberazione» affinché «il suono vada oltre, raggiunga i muri del contenitore, qualsiasi esso sia», altrimenti «lo spazio musicale in cui il pubblico è racchiuso escluderebbe la percezione di tutto quello che sta attorno».

A questo punto, la vasta aula della cinquecentesca Chiesa di San Lorenzo, altro non è se non il contenitore – dunque, l’esterno – del luogo-strumento, per cui «lo spettatore, al suo arrivo, passa sotto la “chiglia” della nave, sollevata di 3 metri rispetto al suolo, per penetrare dal di sotto dentro lo “spazio musicale”», mentre «all’interno, si sviluppa un sistema costituito da tre livelli di passaggio sovrapposti, sui quali i musicisti e i solisti si muovono».

Come ebbe a notare Carlo Fontana, Direttore della Biennale Musica nel 1984, «”Prometeo” è senza dubbio l’impresa artistica piú spericolata e costosa nella storia della Biennale Musica», il che fu possibile grazie al Teatro alla Scala di Milano e al Comune di Venezia, dai quali venne integrata la disponibilità finanziaria del Festival, e il che fu anche sacrosanto, in quanto i festival devono servire per far nascere il nuovo, non per celebrare il consumo.

Tant’è che l’allora Sovrintendente al Teatro alla Scala, Carlo Maria Badini, poté giustamente sostenere, con parole tuttora attualissime, che «è importante ritrovarsi insieme, nell’ascolto di ciò che un contemporaneo ha scritto per gli uomini del suo tempo, per aiutarli a capire, per aiutarli a vivere la loro tormentata stagione. E che tutto questo accada è motivo di speranza anche per il futuro degli uomini di oggi e di domani, in un’epoca in cui tanto si parla di missili».

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Claudio Abbado e Luigi Nono (foto Erio Piccagliani / courtesy Teatro alla Scala).

Multiverso?

Il luogo-strumento di Prometeo, realizzato in legno in diverse tonalità, era accompagnato dalla speranza di Renzo Piano che, dopo le rappresentazioni, esso potesse diventare «un laboratorio musicale permanentemente disponibile alla sperimentazione e al lavoro creativo».

In realtà, un anno dopo, l’intera struttura era stata trasferita, a cura del Teatro alla Scala, a Milano, in un capannone del dismesso stabilimento Ansaldo, dove venne riallestita per altre rappresentazioni del Prometeo. Dopo di che, tutto è stato smontato e mandato in sonno dentro un magazzino a Cavenago Brianza.

Se il corpo fisico del Prometeo del 1984 s’è nel frattempo del tutto dissolto o anche se tuttora giace inerte in un oscuro fondaco brianzolo, l’impatto rivoluzionario del corpo intellettuale di quello spettacolo seguita a vivere, lascia percepire un’eco dell’intelligenza precorritrice – sua, come degli artisti in generale – con cui si dà alimento al vento del futuro.

Per esempio, è cosa rara, oggi, che qualcuno non s’occupi – piú o meno a sproposito – di “multiverso”. Secondo l’Accademia della Crusca, il termine nasce nel 1992, in un romanzo fantascientifico dello statunitense Neal Stephenson. Servirebbe a definire un mondo virtuale, universale e immersivo, percepito esclusivamente online tramite appositi visori per la realtà aumentata e per quella virtuale, che si integra con la realtà fisica e in cui ciascuno può muoversi e interagire attraverso alter ego digitali. Tuttavia, quasi nessuno sa cosa il multiverso sia veramente o quali utilità potrà servire.

Si può dire con certezza solo come il termine sia una banale italianizzazione dell’inglese “metaverse”, il quale è un ibrido costruito intrecciando il greco antico “meta” con l’inglese “universe” (a sua volta proveniente dal latino “universus”) per significare “al di là di tutto”. A prescindere dal voler tenere conto che Aristotele, 2.500 anni fa, con la sua “Metafisica”, s’era già messo a indagare quale mondo vi sia al di là di quello fisico, sta di fatto che già nel 1984, in piena gestazione del Prometeo e ben prima del romanzo di Stephenson, a Venezia si parlava di metaverso.

Paolo Portoghesi, allora Presidente della Biennale, riprendendo un concetto di Luigi Nono, indicava che «Venezia è un multiverso acustico assolutamente contrario al sistema egemone di trasmissione e di ascolto del suono a cui siamo abituati da secoli». Nono esemplificava la sua concezione di suono evidenziando come a Venezia «i suoni delle campane si diffondono in varie direzioni: alcuni si sommano, vengono trasportati dall’acqua, trasmessi dai canali… altri svaniscono quasi completamente, altri si rapportano in vario modo ad altri segnali della laguna e della città stessa». Quello, a differenza della prassi nel mondo d’oggi, era un modo limpido e netto d’assegnare un significato al termine “multiverso”.

A proposito di suoni, pensando a Claudio Abbado, a dieci anni dal suo passaggio nell’immortalità e a quaranta dal Prometeo di cui diresse la prima mondiale, che felice pensiero – tra i suoi tanti – fu questo: «credo che il silenzio nella musica di Nono, cosí come in quella di Mahler, sia molto importante. Penso all’ultima frase della Nona, a quell’attimo di silenzio che c’è prima della fine».

Ultima modifica il Venerdì, 31 Maggio 2024 09:06

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