C’è sempre un’aria di festa al Festival d’Avignone. La respiri subito appena arrivi in stazione e ti avvii a piedi lungo la Rue de la Republique costellata di manifesti, striscioni e locandine appese su ogni spazio murario e sulle vetrine di ogni negozio. Con il trolley in mano puoi scorgere già in ogni angolo artisti di strada, mimi, musici e giocolieri che danno prova del loro talento e intere troupe teatrali agghindate con i costumi di scena, nonostante il caldo sfiori i 40 gradi, sorridenti e pronti ad offrirti cartoline del proprio spettacolo e riassumerti velocemente plot, luogo e orario. Si calcola che per questa edizione 2024 del “Teatro Off” (la 58ª, da distinguerla dal “Teatro In” che è alla sua 78ª edizione), saranno trecentomila le persone che potranno assistere a circa 1600 spettacoli programmati in 140 luoghi, distribuiti tra veri e propri teatri e teatrini, ma anche tra appartamenti, garage e quant’altro, in una cittadina che ha appena 92 mila abitanti, allestiti per diventare delle vere e proprie strutture teatrali. Quello d’Avignone, che si svolge in genere in luglio, è il Festival più importante al mondo (in concorrenza con quello di Edimburgo che avviene in agosto), nato come è noto nel 1947 ad opera di Jean Vilar, diretto da un paio d’anni dal portoghese Tiago Rodrigues che ha proposto 33 spettacoli, invero alcuni discutibili, compreso il suo che s’intitola Ecube pas Ecube. (Ecuba non Ecuba) di Euripide, avendo di positivo solo la suggestiva location della Cava di Boulbon (ad una ventina di Km da Avignone dove si arriva in pullman con un biglietto di 9 euro pagato pure dai giornalisti), la medesima dove 39 anni fa Peter Brook mise in scena il suo mitico Mahabharata. C’è da dire che solitamente Rodrigues accosti i suoi lavori a fatti che lo hanno coinvolto, come in questa occasione, dove la sua potenziale Ecuba l’ha individuata nell’attrice Nadia Roger, madre d’un figlio autistico di 12 anni, vittima di gravi maltrattamenti subiti in un Istituto svizzero, al tempo in cui lui lavorava a Ginevra. Ecco dunque la carismatica Elsa Lepoivre nel ruolo del titolo, ma anche di Nadia, vestita di nero come i suoi sei colleghi, con gonna sopra i pantaloni (i costumi erano di Josè Antonio Tenente), provenienti dalla Comedie Francaise, colti all’inizio dietro un lungo tavolo, situato nel grande spazio sterrato, come se stessero provando il testo euripideo o dare inizio ad un processo penale contro quella struttura elvetica, per passare successivamente ad una vera e propria messinscena. Per la verità poverella e priva di emozioni, senza fare sussultare gli animi, sfoderando i vari interpreti piuttosto una recitazione plateale e altisonante. A cominciare dall’Agamennone di Denis Podalydes, ma ancor di più dal Polimestore di Loïc Corbery che ha ucciso Polidoro, figlio di Ecuba e Priamo, pure nei panni di responsabile della segreteria di Stato, mentre l’altra figlia, la Polissena di Elisa Alloula, s’è tolta la vita per non andare prigioniera dei greci di Odisseo, accompagnati dalle parole del Coro di Sephora Pondi che interpreta pure l’avvocato di Nadia e sono presenti anche Eric Genovese e Gaël Camilindi. Succede poi che Ecuba, emblematicamente scolpita come una cagna al centro della scena, avendo vicini i cadaveri dei suoi due figli, acquisti vigore energia e prepari una vendetta strappando gli occhi a Polimestore che se ne va girando accecato per tutto lo spazio scenico. Una tragedia in cui nella prima parte domina la pietà, nella seconda, l’orrore.
Liberté Cathedrale, coreografie di Boris Charmatz.
Quando stava per fare sera, intorno alle 21,30, nello Stadio De Bagatelle illuminato a giorno, fuori dai bastioni bianchi distribuiti tutt’intorno ad Avignone, che qui chiamano remparts, e a due passi dal fiume Rodano, ho visto un originale e applauditissimo spettacolo di Teatro/Danza, titolato Liberté Cathedrale, rappresentato per la prima volta en plein air con le coreografie di Boris Charmatz e con 26 protagonisti provenienti dal Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch e la Compagnia Terrain. Un’ora e trequarti di corse in lungo e largo sul verde campo dei danzatori che formavano girotondi matissiani, capannelli e castelli umani di saghe paesane, interagendo col pubblico, intrufolandosi a volte vociando tra gli spettatori sugli spalti o seduti a terra tutt’intorno al prato erboso, facendo risuonare i propri corpi al suono di campane o di musiche beethoveniane o improvvisazioni all’organo ispirate a Bach o a Vivaldi.
Quichotte di Gwenaël Morin.
Deludente invece lo spettacolo Quichotte ad opera di Gwenaël Morin, ripreso molto alla larga da Cervantes, con un quartetto di protagonisti fuori dai propri panni, intenti a leggere storie che non interessavano a nessuno, vestiti con abiti di tutti i giorni, compresa Jeanne Balibar in lunga veste a fiorellini che cercava di entrare nel personaggio picaresco, indossando vari cartoni a guisa di armatura, scudo o di elmo, imbracciando una lancia formata da due pezzi di legno incollati con lo scotch plastificato, buono tutto il quartetto, oltre la Balibar pure Thierry Dupont (che di Sancho Panza aveva solo pancia e statura), Marie-Noëlle, lo stesso Morin in alternza con Leo Martin, per sbarazzarsi d’una grande quantità di libri gettati a terra in fondo alla scena, architettata nel fresco Jardin de la Rue De Mons, unica nota positiva dello spettacolo.
Le vie secrete des vieux, regia Mohamed El Khatib.
Si doveva prendere un autobus per andare alla Chartreuse de Villeneuve lez Avignon e assistere al collaudato spettacolo Le vie secrete des vieux (La vita segreta dei vecchi), ideato e messo in scena da Mohamed El Khatib, talentuoso e sensibile regista di Beaugency, messosi in luce giusto con questo lavoro nato dieci anni fa, cui sono seguite oltre 500 rappresentazioni in Francia e in tanti altri paesi. Sulla scena sette vecchietti, cinque donne due uomini di età compresa tra i 75 e i 90 anni e passa, che parlando al pubblico era come se si rivolgevano a loro stessi, utilizzando parole dense d’ironia, domandandosi se la fine della vita corrispondeva alla fine dell’amore o se gli ultimi anni potevano mortificare i propri desideri sessuali. Ognuno di loro raccontava una storia indelebile che li aveva visti protagonisti di rocambolesche esperienze sessuali, ad un tratto si udiva registrata la voce rauca e inimitabile di Rosa Balistreri che cantava in siciliano Cu ti lu dissi (Chi te l’ha detto), un canto d’amore di luci e ombre che si concludeva con l’amata che è “ciatu di lu me cori” (fiato del mio cuore), un paio di coppie si esibivano in alcuni passi di danza e alla fine, in fondo alla scena, piccoli giochi d’artificio concludevano uno spettacolo delizioso e molto applaudito .
Mothers, regia Marta Gornicka.
Sono ukraine, bielorusse e polacche le ventuno donne (compresa una ragazzina) che sul grande palcoscenico della Corte d’Onore del Palazzo dei Papi fanno sentire forte la loro voce, unite tutte da un solo canto di pace. Viene quasi la pelle d’oca per come le loro parole si stampino sugli antichi muri gotici di questa maestosa struttura affollata da duemila spettatori, che alla fine sommerge quel coro con almeno dieci minuti di applausi. S’intitola Mothers lo spettacolo concepito e messo in scena da Marta Gornicka, fondatrice a Varsavia del The Chorus of Women Foundation, avendo come sottotitolo A song for Wartime (Una canzone per il tempo di guerra), una performance quasi, dove le voci di queste donne fanno un tutt’uno con le coreografie di Evelin Facchini dal sapore militaresco, per il modo di marciare insieme o in gruppi, al suono d’un tamburo battuto da una di loro e con il sottofondo di canti popolari e musiche tradizionali.
Soliloquio.
Soliloquio inizia nello Spazio Saint Martial con un manifesto autobiografico dai toni politici, letto da Tiziano Cruz originario di San Francisco, un villaggio al nord dell’Argentina, per snodarsi poi lungo alcune vie di Avignone con canti, danze e musiche andine da parte d’un gruppo di suoi amici e artisti zigani e sudamericani, agghindati con coloratissimi tipici abiti, che non compariranno al chiuso nel Gymnase du Lycée Mistral, quando Cruz racconterà tutto da solo, vestito solo d’una mutandina bianca e d’un pesante collare sulle spalle, ricco di nastri, collane e pon-pon colorati, un avvenimento tragico successo nel 2015 allorquando sua sorella morì all’età di 18 anni per alcune negligenze della classe medica. Lo spettacolo in questione ha come sottotitolo “Me desperté y golpée mi cabeza contra la pared” (Mi sono svegliato e ho sbattuto la testa contro il muro), un modo per manifestare la sua presa di coscienza nei confronti del sistema di potere argentino e dire addio alla struttura aristotelica della sua formazione culturale e teatrale, diventando la musica andina, rinnegata per tanti anni, la sua sola compagna. Soliloquio dunque è la sua biografia, uno spettacolo sulla sua identità basata su 58 lettere scritte a sua madre quando lui aveva lasciato il suo paese e di cui si apprezzano le sue performance visuali appartenenti alla sua intimità e al suo nuovo modo di pensare e vivere la vita.
Historia d’un senglar, regia Gabriel Calderon.
Uno scranno di legno e una serie di funi con le pulegge alle spalle del bravo Joan Carreras, era l’essenziale scenografia di Historia d’un senglar (o alguna cosa de Ricard), un titolo spagnolo per dire che stiamo assistendo al Teatro Benoît-XII ad una “Storia di un uomo semplice (o qualcosa su Riccardo), testo e messinscena dell’uruguayano Gabriel Calderon. Un monologo molto ironico, dove Carreras entra nei panni di Riccardo III, il tirannico e mostruoso re della tragedia di Shakespeare, non credendo di poter recitare un personaggio così importante dopo aver fatto dei ruoli di secondo piano. E mentre il lavoro va avanti, l’attore avverte delle affinità tra lui e il personaggio che sta interpretando, riferito in particolare al carattere di Riccardo III che ha una mentalità machiavellica, un’ambizione smisurata, una rabbia e una sete di assoluto non comune. In sostanza entrambi sono stati rifiutati ed entrambi aspirano ad essere i migliori. Riccardo III per Calderon rappresenta la parte più selvaggia degli esseri umani, quella che desidera il potere ad ogni costo, che prende in giro le regole del vivere civile, che uccide i deboli e dichiara la guerra con troppa superficialità. Caratteristiche queste presenti in ciascuno di noi e che fanno dire al personaggio alla fine: «Il mio regno per uno spettatore intelligente».