di Luigi Pirandello
adattamento e regia di Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Tirifirò,
Chiara Mancuso, Remo Stella, Federico Brugnone,
Matteo Lai, Dario Iubatti e Davide Giordano
scene di Sergio tramonti, costumi di Nanà Cecchi, luci di Camilla Piccioni,
produzione Marche Teatro,
visto al Teatro Franco Parenti, Milano, 23 novembre 2017, poi in tournèe
Firenze, Teatro della Pergola, dal 12 al 17 dicembre 2017
FIRENZE - Inscenare la propria follia per ritirarsi dietro le quinte della realtà, e da lì contemplare sogghignando le miserie e le ipocrisie della società. È questo l'artificio psicologico e teatrale adottato da un uomo (il cui nome resta ignoto per tutta la durata dello spettacolo), il quale, dopo una caduta da cavallo nel corso di una rievocazione storica, decide di fingersi mentalmente disturbato e mostrarsi convinto di essere la personificazione dell'Imperatore Enrico IV di Franconia. Carlo Cecchi riprende uno dei testi più belli e penetranti di Luigi Pirandello, rimaneggiandolo però in maniera tale da renderlo ancora più incisivo, privilegiando l'aspetto psicologico e di critica sociale rispetto alla sontuosità testuale. Infatti, curando la regia dell'Enrico IV, Cecchi interviene sul testo riducendo drasticamente i lunghi monologhi in origine scritti per Ruggero Ruggeri; così facendo, ha anche sicuramente facilitato il pubblico nel seguire la sottile vicenda costantemente in equilibrio tra realtà e finzione.
Nella prima parte di questo lungo atto unico, Cecchi adotta registicamente il punto di vista dei vari personaggi chiamati a fare da necessarie comparse alla commedia; con pose ora da commedia dell'arte, ora da commedia sofisticata, il gruppetto (che si può considerare alla stregua di una compagnia teatrale vera e propria) s'interroga sui possibili rimedi per tentare di guarire l'uomo dallo stato di follia in cui pare trovarsi, e a tale scopo è stato convocato un medico, Dionisio Genoni. Con approccio comicamente scientifico, si ricostruiscono le circostanze della caduta da cavallo che costò all'uomo un trauma cranico e lo scompenso psichico che sembra esserne derivato; ma soprattutto, si dipinge la sua personalità come "inquieta, esuberante, piena di vita, capace di nascondere i sentimenti dietro la maschera dell'ironia, che guardava se stesso come se fosse in procinto di recitare una parte". Un giudizio arbitrario, dato però con la certezza della verità. La teoria del medico è che se all'uomo si facesse rivivere l'esatto momento della caduta da cavallo, questi potrebbe forse guarire. Si sceglie però di far interpretare la donna che all'epoca era Matilde di Toscana, dalla di lei figlia, Frida.
Il quartetto dei consiglieri (Brugnone, Lai, Iubatti, Giordano), agisce come si trattasse di una compagnia di comici, consapevoli di essere le comparse di una farsa inscenata da Carlo Di Nolli, nipote del presunto Enrico IV, che da oltre dieci anni si premura di ricostruire la realtà storica dei tempi dell'Impero, procurando allo zio le distrazioni necessarie a vivere. Dovendo condurre l'esperimento, anche il dottor Genoni, la Marchesa Spina e la figlia devono travestirsi con costumi d'epoca, e in particolare il medico non si trova a suo agio. Nasce così una sorta di commedia nella commedia, che porta alla luce la ridicolezza dell'individuo quando crede di conoscere la realtà dei fatti, ma ne viene in realtà ingannato.
Il primo incontro fra Enrico e la Marchesa Spina (non ancora con la figlia), fa nascere nella donna il sospetto che l'uomo in realtà si ricordi di lei come Marchesa Spina, e non come Matilde di Toscana; infatti, in gioventù, era stato innamorato di lei. Ma il medico e soprattutto il viscido Carlo Belcredi (adesso marito della Marchesa), sostengono come ciò non sia possibile.
Cecchi interpreta un Enrico IV ascetico, vestito di ruvido saio, ma in queste vesti di Deus ex machina si compiace di sentirsi più un capocomico che un Imperatore, e non nasconde il suo disprezzo per coloro che si prestano a recitare per lui, riservando loro, fra le varie invettive, anche l'appellativo di buffoni. La sua è una rivalsa contro una società che pretende di ridurre gli altri alle proprie definizioni, in una sorta di ipocrita tirannia dei giudizi alla quale il presunto Enrico IV si sottrae, e giocando a essere folle mantiene la sua identità. Identità che letteralmente scaglia contro gli attoniti consiglieri ai quali rivela l'inganno, poco prima che si svolga l'esperimento con Frida al posto della madre.
Lo spaesamento è generale, e la scena finale è una vera e propria "resa dei conti", con Enrico che lascia intendere come la caduta da cavallo sia stata provocata da un suo rivale (Belcredi, appunto), con l'intenzione di ucciderlo. Uscitone incolume, ha preferito fingersi folle per ottenere una vendetta più efficace, ovvero ridere alle spalle dei suoi detrattori, di quella società che sempre lo ha giudicato strano, poco in tono con gli stereotipi, ma soprattutto ha dimostrato di aver attentato alla sua vita. La pazzia è inscenata sin dall'inizio, a differenza di quanto accade nel testo originale (dove la caduta da cavallo ne è la vera causa); rendendola invece una scelta, Cecchi ne aumenta il valore di strumento psicologico, ne fa una maschera inquietante, uno strumento di vendetta in quanto, rifacendosi alle culture arcaiche, colui che è folle è una sorta di messaggero divino le cui parole rispecchiano la verità. Tuttavia, in un ennesimo cambio di prospettiva, Enrico continua la farsa, e si avvicina a una spaventata Frida che adesso interpreta la Marchesa di Toscana. Belcredi, geloso della figlia, cerca d'impedire che l'uomo l'abbracci, e in un gesto di vendetta catartica, Enrico lo accoltella e lo uccide. Su questo gesto, che resta sospeso tra la follia e l'intenzionalità, cala il sipario.
Con arguzia e intelligenza, Cecchi unisce il gusto di Pirandello per la tragedia greca alla commedia dell'arte, dando vita a uno spettacolo dal ritmo gradevole, che fa largo uso dell'improvvisazione, della costruzione del dialogo in presa diretta, con il consigliere Momo che interviene correggendo quando Enrico IV utilizza un linguaggio non aderente al testo originale pirandelliano. Elementi di teatro nel teatro che contribuiscono a rafforzare la "confusione" fra realtà e finzione. Ma soprattutto, a 150 anni dalla nascita e a 95 dalla prima recita dell'Enrico IV, Luigi Pirandello dimostra la sua straordinaria attualità: questo sottile testo drammaturgico rivendica l'importanza del libero pensiero, fa sua l'idea malapartiana dell'importanza di essere "liberi in una prigione", e se la satira di fondo poteva andare bene per l'Italia fascista, il messaggio è ancora valido nella meschina Italia contemporanea, dove la televisione e il campionato di calcio sono sufficienti a stabilizzare la società.
Niccolò Lucarelli
Iniziamo da una suggestione e dal contesto. Il contesto è quello del teatro Franco Parenti dove si è visto Enrico IV di Carlo Cecchi. Il Parenti gioca fra interno ed esterno, con quella piazza foyer che simula la città e invita ad entrare nella cattedrale laica della cultura occidentale: il teatro in cui con la scusa della finzione si va in cerca delle verità non dette. La suggestione arriva a posteriori ed è offerta da incontri causali di foto di vecchi attori che interpretarono il personaggio pirandelliano: Renzo Ricci, Salvo Randone, Romolo Valli, Giorgio Albertazzi, Marcello Mastroianni, Gianrico Tedeschi, Sebastiano Lo Monaco, Ugo Pagliai, Giulio Bosetti, Franco Branciaroli. Immagini che una vecchia volpe del teatro e della sua appassionata comunicazione come Andrea Bisicchia (non ce ne voglia, colui che più di altri ha contribuito e contribuisce a mantenere viva e a comunicare la storia e il quotidiano del teatro di via Pier Lombardo) ha postato sul suo profilo Facebook. E già che ci siamo piace citare il capitolo del saggio di Bisicchia, Pirandello in scena: Suggestioni calderoniane nell'«Enrico IV».
Perché dire tutto ciò? Perché da un lato la capacità di promozione di uno spettacolo nasce anche da queste incursioni iconiche nel mare magnum di gattini e vignette di Facebook, ma soprattutto perché senza dire, ma mostrando Andrea Bisicchia da attento esegeta del teatro contemporaneo offre la chiave di lettura dell'allestimento applauditissimo di Carlo Cecchi, prodotto da Marche Teatro. Superfluo dire che Carlo Cecchi si pone all'interno - con sguardo dissacrante e di disturbo - della grande tradizione dell'attore italiano. Con questo Enrico IV si pone all'interno di una storia dell'arte attoriale che pure violenta, dissacra, fa a pezzettini, irride e nell'irrisione ne restituisce l'inafferrabile tensione alla verità della maschera che indaga la nostra follia. Ciò che va in scena in questo Enrico IV è la follia del teatro che è vocazione teatrale, va in scena un teatro elevato all'ennesima potenza, un teatro che coincide con la vita tanto più sembra prenderne le distanze svelando il suo gioco e inganno interiore: l'artificio della messinscena. Cecchi ha riscritto, alleggerito l'Enrico IV, ne ha tagliato le lungaggini e ha – per così dire – concentrato l'attenzione su quell'uomo che decide di portare avanti la messinscena di Enrico IV in pellegrinaggio da Matilde di Canossa ben oltre gli effetti di quella caduta da cavallo che lo ha reso Enrico IV, condannandolo al ruolo rivestito in occasione di una festa di carnevale. Tutto ciò nell'allestimento di Cecchi è accennato, ad emergere è – fin dalla prima scena – l'aspetto metateatrale la rappresentazione che un giovane e agguerrito manipolo di aiutanti - Federico Brugnone, Matteo Lai, Dario Iubatti e Davide Giordano - deve sostenere ogni giorno chiedendo a familiari e ospiti di calarsi nei panni di abati, monaci e personaggi legati all'imperatore penitente. Copione alla mano, suggerimenti su come recitare, citazioni eduardiane su dove e come mettere le mani, prove di recitazione prima dell'arrivo della Marchesa Matilde Spina (Angelica Ippolito), della figlia Frida (Chiara Mancuso) creano una distanza, creano una sferzante separatezza fra ciò che accade e accadrà da come farlo accadere. Carlo Cecchi ci butta in faccia la finzione, dimostra la falsità di quella macchina teatrale che abbisogna di personaggi, che si nutre di gesti stereotipati che inducono a fingere. Eppure in questo allegro e colorato prendere le distanze in cui le scene mobili di Sergio Tramonti elevano all'ennesima potenza la macchineria scenica accade qualcosa, tutto ciò ci appare ostentatamente finto ma anche in grado di risuonare come vero e interrogante nel profondo dell'anima. Carlo Cecchi è attore fin nelle viscere, recita e si guarda recitare, è come dicesse e si dicesse: che birignao, che artificio ma in quel dirlo scavasse, tirasse fuori il non detto, la disperazione, la constatazione che l'unica soluzione è la follia al non senso della vita, che un'altra possibilità non c'è, esiste solo in teatro. E non è un caso che l'ultima battuta sia rivolta a Roberto Tirifirò (Barone Tito Belcredi) in cui dice: «Su, alzati, domani c'è un'altra replica». Ed è questa possibilità in più che il teatro offre, è questa libertà di riprovare e ri-fare che la vita non ti concede e che Carlo Cecchi in Enrico IV ci sbatte davanti agli occhi, lui maschera di verità, noi attori veri della vita, ma senza la possibilità di godere di una nuova replica. A sostenere Cecchi alcuni attori che fanno parte della storia e del teatro di Cecchi: Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Tirifirò, insieme a Chiara Mancuso, Remo Stella. Alla fine l'applauso è all'idea, allo spettacolo, al maestro Carlo Cecchi congeda il pubblico con una speranza: che alla fin fine ci sia sempre un'altra replica. Come non ringraziarlo di questo.
Nicola Arrigoni