Da Gaber e Pasolini
Uno spettacolo di Neri Marcorè e Claudio Gioè
Regia di Giorgio Gallione
Teatro Olimpico di Roma- Dal 21 febbraio al 4 marzo, 2012 (e successiva tournée)
Il nucleo originale (l'idea forte dell'avventura teatrale) è la "stratificazione" del trittico: sotto forma di semina poetica, di disillusione "tra il dire e il fare", di impegno civile che non demorde nella sua calma disperazione mirata a testimoniare nel tempo, e del "suo tempo".
E allora, Pasolini, Gaber, Luporini, autori sinuosi, martellanti, persino 'monocordi' che generano la sanità del dubbio e prefigurano il gusto dell'Apocalisse, della Capitolazione (forse) rigenerativa, non immune da una pertinente pozione (aggiuntiva) di 'cupio dissolvi'.
Dei loro testi e della loro assillante passione umanistica (per l'Italia cui nulla importa e che copiosamente si imbastardisce sin dalle ceneri di Gramsci e del perpetuo dopoguerra), Neri Marcorè, Claudio Gioè e il quartetto da camera Gnu cesellano una perfetta sintesi di "teatro canzone" (ragione sociale, estetica e poetica del loro sodalizio).
Lo stesso 'stemma' caro a Gaber. Lo stesso che racconta con i suoni dell'abitudine e della assuefazione (non riconciliata) tutto un emisfero di esistenze plastificate, scandite da orologi, doveri d'ufficio, sciacquoni del water il sabato sera, dopo aver consumato il più asettico degli 'amor coniugali'.
E che l'intorpidita coscienza degli ex trentenni si affannava a rimuovere dai prodromi del proprio malessere incipiente, e che oggi è nevrosi, fallimento, fuga ottenebrata, suicidio fisico o dell'anima.
Tutto (dello spettacolo) ha origine da una famosa intervista che Furio Colombo rivolse a Pier Paolo Pasolini il 1° novembre del 1975, il giorno prima del sua 'esecuzione' sul litorale di Ostia (con relative 'verità ufficiali' - quindi depistaggi dal vero). Di qui, dalla descrizione di uno scrittore scomodo e profetico, si snoda un 'percorso a due' in cui Marcorè incarna Giorgio e interpreta gran parte delle sue canzoni (che anticipano il vuoto dei tempi), mentre a Gioè è affidato il compito di 'essere Pier Paolo', con la sua sensibilità un po' cupa un po' sciamana, l'insofferente percezione dell'Italia che muta 'senza progresso' ma nella più ottundente chimera di sviluppo.
I temi in ballo sono tanti. L'impossibilità di una militante 'appartenenza politica', poiché chi gestisce la cosa pubblica non sa 'dove stia' e cosa avvenga nel Paese concreto dove è il moloch televisivo a farsi medium proliferante dell'appiattimento del gusto su laidi modelli usa e getta; l'ideale comunista che, dopo i fatti di Praga e d'Ungheria, aveva intrapreso il suo disarmo profetico poiché incapace di accendere nuovo iride; il messianico atto d'accusa ideato da Pasolini con il redde rattionem di "Io so": ove si ricostruisce 'la più infame ipotesi' della nostra storia stragista, di cui lo scrittore intuisce progettisti, mandanti e istituzioni al seguito, ma di cui non può far alcun nome 'perché mancano le prove' ovvero l'arma del burocratese, della prescrizione, della iniquità elevata a esercizio procedura penale.
Avendone però, la verità, assoluto bisogno per trasformarsi in scintilla d' azione e-se serve- d'insurrezione L'humus venefico è palese ed ancora operante: l'Italia dei 'scardaciati' anni '60, del finto boom economico si è mutilata in un popolo di consumatori, di fedeli servitori delle multinazionali e del consumismo-conforme. Mediatico e non.
L'ultima provocazione gaberiana ci ammannisce una visione dall'alto con l'ipotetico Dio che ci osserva, non riconoscendosi nella 'sua' umanità e quindi scegliendo di mandarla a picco, come le navi da crociera salpate in economia.
Dalle pagine dense di rabbia e disincanto (di Pasolini) sino al cuore delle allegorie esistenziali, politicamente lancinanti (di Luporini e Gaber), si scorge infine la cifra di una drammaturgia tutta in divenire. Una sorta di lezione aperta al pubblico come magro trionfo delle profezie del passato, proiettate nelle coscienze di 'chi a quel tempo non era ancora nato', entro una scena che è costretta ad interrompersi in un muro (sartiano?). Fondale imperscrutabile e monolitico, equipollente di un popolo 'rinsaldato' di egoismi, infime borghesie e nuove dighe 'doganali' contro l'emergenza di chiunque si risvegli clandestino.
A se stesso e alla vita - imposta come organigramma esecutivo del pensiero 'a reti unificate'.
Angelo Pizzuto