Uno spettacolo di Giancarlo Sepe
Con Antonio Balbi, Sonia Bertin, Jacopo Carta, Chiara Felici,
Giuseppe Claudio Insalaco, Camilla Martini, Riccardo Pieretti,
Federica Stefanelli, Guido Targetti, Maria Luisa Zaltron
Scene: Alessandro Ciccone Costumi: Lucia Mariani
Musiche: Davide Mastrogiovanni a cura di Harmonia Team
Disegno luci: Guido Pizzuti
Teatro La Comunità di Roma sino al 18 dicembre 2019
DERIVE NON PERCEPITE Con “Germania anni ‘20”, Giancarlo Sepe annuncia di avere portato a termine (più che mirabilmente) una ideale tetralogia sulla (tremenda) storia tedesca del secolo scorso: ricerca iniziata negli anni ‘70 con “Herman” e proseguita, nei decenni successivi (ampi varchi temporali di maturazione) con “Accademia Ackermann” e “Werther a Broadway”. Denominatore comune dei tre allestimenti sono l’ambientazione storica (l’effimera Repubblica di Weimar) e il progressivo, “incosciente” aderire di una collettività democratica alle seduzioni dell’uomo-forte (con “pieni poteri”) e alla cultura nazional-fascista che ne sarà il collante di dannazione. Quasi superfluo evidenziare la scottante attualità del tema in uno scacchiere geopolitico oggi del tutto diverso (e ardua decodificazione) ad occidente come ad oriente: dall’unità europea delle ‘finanze’ al miraggio di Putin poterle egemonizzare, dalla sconcertante (ma non demente) politica estera di Trump al fu- ‘pericolo giallo’ oggi padrone incontrastato di più della metà dell’economia globalizzata. Angelo Pizzuto
La democrazia “emozionale”, ed agevolata ad essere tale dalla (orchestrata da altri) paura del futuro, porta in incubazione il seme del nazifascismo (m.p.)
Sono, i nostri (e ovviamente), corollari suppletivi alla nitida, cogente, coinvolgente “poetica” della struttura drammaturgica con la quale Giancarlo Sepe intarsia il suo ennesimo gioiello di teatro totale e a basso costo, suddiviso per saettanti citazioni filmiche (ma non solo) e sequenze paracinematografiche – sua cifra stilistica - ove a primeggiare sono l’ elaborazione (laboriosissima) d’ogni singola immagine, la pantomima ininterrotta e coreograficamente perfetta, il fluire senza sosta di musiche ‘appropriate’ (Kurt Weill ma anche Gabriel Formiggini e Dajos Béla). E la voce umana “mortificata” quasi sempre a corale strepito, sbigottimento, rabbia repressa da “quell’impalpabile terrore” che incute l’immoto presente.
“Germania anni venti” – nella sua lucida immersione in cosa significhi evirare l’individuo della propria identità, come a quel tempo intuiva Ernst Toller con “Il mutilato”- è quindi metafora, epitome, sintesi ‘audovisiva’ di una mucillagine socio-azzerata ai piedi della annichilente trinità dell’ “Uno nessuno centomila”: che, non a caso, Luigi Pirandello diede alle stampe nel 1925, dopo quindici anni di gestazione. E lunghe stagioni di studio universitario fra Bonn e Berlino.
Cosa “appare” nello spettacolo? La sua “tela” è la città al crepuscolo, esplicito ricalco della “Metropolis” di Fritz Lang (costruita anch’essa in ‘interni’ e in assonanza con l’estetica espressionista, grazie all’immenso apporto scenografico di Hunte, Kettthelut e Vollbrecht), ove a prevalere sono i giochi prospettici di un alveare umano composto da fatiscenti grattacieli e squallidi tuguri condominiali contrassegnati da fessure luminose. Arrivano spari di sottofondo. A minaccia di cittadini-automi, in tetra miseria, quindi costretti a sopravvivere osando ogni genere di crimine. Al cui apice stanno (antesignani o sempre presenti?) “ordinari” tentativi di femminicidio e ‘alienata’, repressa violenza: trattasi della coppia nuziale appena “consacrata” o della signora cocainomane disposta a prostituirsi in cambio di polverina; del lanciatore di coltelli che “amerebbe” (per isteria) fare a fette le proprie assistenti o della ‘povera orgia’ nel (celebre) cabaret Eldorado dominato da una donna velata (e vilipesa) acconciata come la Lulù di Pabst-Wedekind.
Un solo appunto: la prosa è prevalentemente in tedesco e non per eccentricità, ma (credo) per dare maggiore pregnanza agli umori scenici. E dunque una traduzione simultanea, in scrittura elettronica, sarebbe stata gradita. Pur se è indubbio (altresì) che “le immagini rendono il senso delle parole”, così come ogni altro elemento che concorre alla messinscena (costumi, gioco di luci, singole performance dei giovani interpreti: a ciascuno il “suo” spazio di rivelazione ed encomio) partecipa di questo isolato “nettare” di teatralità compiuta, di ricerca, di laboratorio permanente evocante (per chi scrive) una lontana stagione di cantine e underground, scaturita dalle spericolate prassi-utopie di teatranti romani (anzi, oriundi) spersi per sottoscale e solai di nome Beat ’72, la Fede, Metateatro e tanto ancora.
Panta rei Eraclito o meno, quindi nessuna nostalgia. Resta però inappellabile (per lo spettatore accorto di ogni età) l’invito a non lasciarsi sfuggire questo piccolo (quindi grande) capolavoro di generi e memoria storica, di musical e di autocoscienza democratica. Alitando quel clima di teatro facinoroso, sedizioso e militante (almeno nell’anima) che fu la “bottega dell’arte” di tanti amici (e colleghi) che poi –quell’arte- la misero da parte.