di Samuel Beckett
regia, scene e ideazione luci: Robert Wilson
costumi e trucco: Jacques Reynaud
drammaturgia: Ellen Hammer
disegno luci: A.J. Weissbard
suono: Emre Sevindik
con Adriana Asti, Yann de Graval
Spoleto, 52° Festival, Caio Melisso, dal 27 giugno al 5 luglio 2009
Teatro Ponchielli Cremona, 6-7 febbraio 2010
Potente, abbagliante, intenso, dolente e ironico questo è Giorni felici di Samuel Beckett nella versione registica di Bob Wilson con Adriana Asti nei panni di Winnie e Yann de Graval in quelli di Willie. Il regista texano ha imprigionato Winnie in una frastagliata montagna di cemento, macchia grigia antracite che si staglia su un fondale che cambia colore a seconda degli stati d'animo di quella donna, prigioniera della terra e proiettata verso il cielo, una donna aggrappata alle parole e determinata nel difendere la felicità della vita, nonostante tutto. Giorni felici s'apre con una tempesta fragorosa destinata a morire improvvisamente in quella landa desolata e silenziosa in cui Winnie, svegliata da un campanello, porta avanti la sua esistenza, ricordando i tempi passati, aggrappandosi a pochi oggetti: uno spazzolino da denti, una borsa, uno specchietto e un ombrellino. Winnie dialoga con Willie che risponde a grugniti, ma è pur sempre il suo Willie che ama di un amore tenero e bestiale al tempo stesso, in cui le allusioni sessuali sono il lascito di un contatto che agli occhi è assente. Winnie monologa, parla di sé e del mondo, della vita e del vuoto che la attanaglia, parla della fine che è prossima, dice di quando le parole non ci saranno più e lei sarà lì ancora a guardare davanti a sé, occhi spalancati sul mondo e bocca serrata. Bob Wilson costruisce un Giorni felici di assoluta bellezza, quel fondale che muta pian piano colore e a volte richiama i quadri di Rothko, emozioni di colori, stupisce con il paesaggio iperrealistico che scende dall'alto per raccontare di un mondo che non c'è più, fa correre un brivido con quel fondale blu cobalto attraversato da un lampo bianco che richiama il volto di Winnie, ormai completamente prigioniera della montagna di cemento, nella seconda parte dello spettacolo. Adriana Asti in tutto ciò è una macchina da guerra, è una leggera e ironica Winnie, una terribile Winnie, già cadavere eppure innamorata della vita, tutta occhi e con una mimica di rara intensità. Adriana Asti costruisce una Winnie che sa essere dura, impietosa verso di sé, che si sfida al gioco della vita, che è determinata nel resistere al deserto che la circonda. Adriana Asti dà prova di conoscere e saper frequentare tutta la grammatica d'attrice, costruisce con una mimica precisa e tremenda, con le tonalità di un recitare 'vecchio stile' la sconvolgente modernità di Winnie. Ad un certo punto si ha come l'impressione che l'attrice non sia più corpo, ma solo immagine e voce, una voce che è carne e respiro, che è poesia e dolore, che è inno d'amore e ultimo, disperato poeticissimo anelito di felicità in quel suo cantare...
Nicola Arrigoni
Gigi Giacobbe