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KATIE'S TALES (le storie di Katie) - regia Mario Biagini

"Katie's Tales", regia Mario Biagini. Foto Nikita Chuntomov "Katie's Tales", regia Mario Biagini. Foto Nikita Chuntomov

Open Program

Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards

Con Agnieszka Kazimierska

Regia Mario Biagini

Produzione Fondazione Teatro della Toscana
Fabbrica dell’Esperienza/ Teatro Renzo Casali, via Brioschi 60, Milano 24 e 26 gennaio 2020

www.Sipario.it, 3 febbraio 2020

Una donna sola in un giardino evocato da una sedia e da un tavolo in ferro battuto bianco, di quelli che siamo abituati ad associare alle case della buona borghesia di fine Ottocento. Una sorta di appena accennato ambiente cechoviano dove la giovane, Katie, richiama la presenza di un uomo amato che l’ha lasciata ed è partito (per una guerra? per un qualche altrove?).
Con lei vivono Mary e G., madre e figlio, due servitori. Katie attende, non può far altro, e nell’attesa intesse parole e soprattutto canti. Parla con i due domestici, fa parlare lo zio e il vicino, presta loro la propria sottile ma energica voce; afferra un pacco di lettere, lo abbandona, lo riprende ansiosa, lo scorre. Si rivolge all’amato assente. Si muove nello spazio come una ricca fanciulla di una società che fu. Trascorre sulla scena come un uccellino leggero che passi di ramo in ramo e canta; trascorre sugli oggetti, sul proprio passato, ammesso che ci sia un passato, e non sia il suo invece un eterno presente estatico. Se uno dovesse immaginare una traduzione fisica dello stato d’animo in cui ci si può figurare sia vissuta, almeno nella poesia, una scrittrice come Emily Dickinson, forse potrebbe prendere questo frullare della giovane come esempio, se non fosse che Katie non scrive nulla. O meglio, scrive il tempo di un’attesa senza tempo, nella quale si materializzano alcune visite: il vicino, buontempone e ridanciano, un inquietante zio. Entrambi sono resi dalla stessa attrice, la straordinaria Agnieszka Kazimierska, con lievissimo cambiamento di voce e di postura fisica. Il vicino, con l’aggiunta di un piccolo pastrano nero, commenta l’imminente arrivo – chissà – dell’amato di Katie. Il rude zio le impartisce una serie di ordini che dapprima paiono puramente ginnico-militareschi, ma piegano poi il corpo dell’attrice a un saluto nazista e infine alla postura a croce uncinata di una svastica. Intravediamo dunque un barlume di Storia riflettersi nello specchio quieto della casa, ma niente più. La magione della donna è immersa in un silenzio palpabile, che è anche quello della natura e in particolare dei ciliegi che circondano la proprietà, ma nessun riferimento corre al giardino dell’opera di Cechov. Piuttosto, tutto questo pare una piccola antologia sentimentale di un occidente colto nel riflesso di una sua crepuscolare intimità individualista, ombra o luce di quanto gli uomini (e forse il suo stesso uomo) stanno facendo da qualche parte nel mondo. Ma si fa strada anche un altro sospetto: che l’amato che Katie aspetta non sia esattamente l’uomo che un giorno è partito, ma l’eco sovrumana di una presenza invocata, nell’attesa della quale Katie passa le sue giornate. Così il pacco di lettere sembra assumere a un certo punto il valore come di una scrittura sacra che attenda compimento; e le parole d’amore della fanciulla parole lanciate nel vuoto in attesa di qualcosa che colmi di divino la prosaica quotidianità nella quale ella vive immersa. Perché, alla fine, quello che salta agli occhi, aldilà di tutto, è la gioia che permea e a volte irrompe dall’esile corpo dell’attrice. Come può un sentimento così puro scaturire da un corpo attoriale, dal suo interno, in modo così sorgivo? La domanda è in fondo la chiave per comprendere la particolarità del lavoro del Workcenter. Lavoro che dalla metà degli anni ’80 inietta sotterraneamente nel teatro come una corrente antica e quasi esoterica, che periodicamente emerge in prove pubbliche. Dopo la morte di Grotowski nel 1999, l’erede diretto del maestro polacco, l’americano Thomas Richards e il direttore associato del progetto, l’italiano Mario Biagini, dirigono l’attività secondo due direttrici, rispettivamente: il Focused Research Team in Art as Vehicle e l’Open Program. Si tratta di ricercare intorno a un’idea portante: quella dell’”arte come veicolo”, come definì Grotowski l’ultima fase del proprio lavoro. Fase in cui tutto l’impegno attoriale passa, tra le altre cose, per la pratica quotidiana di una serie di canti antichi, appartenenti a tradizioni popolari le più diverse, ma soprattutto haitiane: il rapporto tra canto e emersione di sentimenti profondamente stratificati nella propria biografia, fino al raggiungimento di un livello a-personale, un area sottile dell’umano dove, dall’agile luminosità di corpi incredibilmente malleabili, pare emergere qualcosa di inesplicabile, percepibile da chi osserva come una corrente di gioia profonda. L’arte come veicolo in fondo la si potrebbe dire un’arte performativa che funziona come una specie di “yoga dell’attore” (per usare un’espressione di Franco Ruffini a proposito del training). Forse è qualcosa di analogo a quanto esperisce il poeta Allen Ginsberg quando dichiara, in un’intervista del 1966: “l’unico modo in cui ci si può salvare è cantando… Si cantano o si salmodiano preghiere o mantra, finchè si raggiunge un stato di estasi e comprensione e la beatitudine straripa dal corpo”. Ora, non sappiamo se è questo che provano i performer, né se sia appropriato l’accostamento con l’Ananda delle scritture indu e con Ginsberg, tuttavia la gioia, qui, in scena, è palpabile. E non è qualcosa che viene “appoggiato” alla performance, una sovrastruttura recitativa; no, la sensazione è proprio di qualcosa che sorga dall’interno, anche per effetto di una rigorosa disciplina quotidiana, verrebbe da dire di una “sadhana” (in sanscrito: pratica spirituale) teatrale. Così lo spettacolo è come una profonda e mirabile danza interiore, innervata dai canti, che risplende nel corpo.
Ma due parole vanno dette anche sul luogo e sul contesto in cui è stato possibile vedere questo piccolo miracolo d’arte: la Fabbrica dell’Esperienza/Teatro Renzo Casali, in zona Navigli, a Milano – “frutto di un sapiente recupero di archeologia industriale” – che opera in sinergia con l’attività di ricerca, tra filosofia e teatro, dell’associazione Mechrì. Ne riparleremo.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Venerdì, 07 Febbraio 2020 10:08

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