di Al Smith
con Alice Spisa, Marco Quaglia
traduzione Alice Spisa
scene Daniele Patti
luci Paride Donatelli
foto di scena Manuela Giusto
musiche originali Virginia Quaranta
regia Stefano Patti
produzione Argot Produzioni in collaborazione con 369gradi
Marostica (Vicenza) Ridotto Politeama, 18 e 19 gennaio 2020
Tre donne a cascata sulle impegnativissime inquietudini del protagonista, in un gioco che può diventare anche pericoloso. Questo, in sintesi brevissima, il quadro del bel testo di Al Smith, ottimamente tradotto da Alice Spisa, a sua volta interprete della piéce assieme a Marco Quaglia, in una scena che rispecchia ambiguità e chiusura, ribadendo le azioni della narrazione, nello spettacolo presentato nell’ambito della frizzante, a dir poco, stagione teatrale della cittadina della provincia vicentina. Scorrono sul palco tre figure di donna, e un uomo solo che di volta in volta è padre, marito e soprattutto uomo, a fare i conti con il proprio io e ancor di più con la maschera, quella che spessissimo se non sempre l’umanità si mette addosso e cambia a seconda delle situazioni che si incontrano. Le ossessioni, che poi in realtà sembrano un’unica forma perversa di porsi di fronte alle malcapitate, sono il leit motiv dello spettacolo, e l’azione narrante si sviluppa partendo e arrivando da un’unica fonte, quella di un padre fortemente attratto dalla figlia tanto da desiderarla, detto come eufemismo. La preoccupazione principale dell’uomo è quella che tutto gli sia sotto controllo, quello che lei fa e disfa, come altrettanto fa e disfa lo stesso di fronte a lei, alla donna che gliela interpreta, e alla moglie con la quale ha ormai un rapporto che a dire disturbato fioriscono le rose. E’ un uomo purtroppo quasi del tutto allo sbando, che non è capace, e potrebbe non esserlo mai stato, di reagire veramente credendoci a questi suoi impulsi. Li contrasta un pochino ma in maniera abbastanza flebile, e questo non gli può certo rendere una sicura collocazione nel quadretto familiare. E’ una sofferenza continua quella che con estrema bravura calandosi nella parte fa Marco Quaglia, assieme all’unica partner in scena, Alice Spisa, perfetta anche lei, rendendo più che plausibili gli interventi duri e la dolcezza alternata, i baci, le carezze e le grida violente. Un duo che funziona magnificamente, che si scontra con una durezza che si riconosce, è palpabile. Succede così che i due si muovano in più vesti mossi da una regia attenta e curata da Stefano Patti, che la riveste di eleganza e misura nonostante il testo stesso porti in questa direzione. E dove la cittadina di Harrogate del titolo è forse un pretesto, o forse no perché la storia si dipana e parte proprio da lì, da quella gitarella della ragazza con il fidanzato. E il sapersi confrontare con il proprio io diventa esercizio, malinconia struggente e pietosa quando non dispettosa. E’ un concentrato di elementi di emozione, questo spettacolo, che non può che portare a un saluto finale di applausi convinti, con un pubblico che può uscire dal teatro (e dall’incubo) soddisfatto, e finamente respirare a pieni polmoni la propria realtà, e fuggire, almeno per un po’ dimenticare quella vista. Altre doverose citazioni le meritano la bella scena, fredda e impietosa al punto giusto, (di Daniele Patti) e tecnicamente ottimale per gli spostamenti, e le luci così a loro volta graffianti, di Paride Donatelli.
Francesco Bettin