Accademia dell’Incompiuto
Recitazione e commento: Mario Biagini
Con la collaborazione di: Felicita Marcelli
In collaborazione con Teatro Puntozero Beccaria e Mechrí, laboratorio di Filosofia e Cultura
Visto il 23 aprile, h 21.00, presso Teatro Puntozero Beccaria, Milano
“La Ginestra” di Leopardi in un solo corpo e fiato, su una scena nuda e con un minimo disegno luci, senza costumi e oggetti, in abito quotidiano, a far da specchio allo spettatore in platea; a rimandare l’immagine di un’alterità appena accennata, poi sempre più accentuata via via che l’attore accede alla poesia e la poesia all’attore. Così si presenta Mario Biagini, messaggero asciutto di un testo impervio. Che la poesia abbia bisogno di essere innestata negli impulsi vitali di qualcuno che l’abbia assimilata per poi restituirla cruda, e pur masticata, in atto pubblico, necessario come un’ammaestramento iniziatico, lo si dimentica troppo spesso. A questo il teatro ci ha disabituato. Tolte le memorie ormai troppo lontane di un Carmelo Bene o di un Leo, e le odierne incursioni di qualche attore-poeta, pochi in verità, in grado di portare la poesia in un certo modo e a un certo grado d’intensità al livello del corpo e della voce, in un percorso di progettata fuoriuscita dal rapporto silenzioso con la pagina. A questo sembra dedicarsi il lavoro concentrato come un laser di Biagini. Che qui toglie al proprio atto teatrale l’elemento del canto e del corpo in-canto per fare incanto di un corpo che agisce lo stretto necessario a sostenere nello spazio la parola leopardiana. Sappiamo come nel lavoro col Workcenter of Jerzy Grotowski e Thomas Richards, che Biagini, da direttore associato, ha lasciato agli inizi del 2022, il canto fosse l’anima portante di un’ipotesi di penetrazione scenica degli impulsi più profondi della relazione dell’essere umano con qualcosa che attraverso il canto si manifesta. L’ “arte come veicolo” era il nome che Peter Brook aveva suggerito per il lavoro di Grotowski di quell’ultima fase. Ebbene qui fin dall’inizio Biagini sembra abbandonare quella disposizione; se non che al canto segue canto, ed è quello fittamente intrecciato, e concertato dalla voce, che la lunga canzone intesse secondo la complessa sintassi, la metrica e l’articolazione di pensiero del Leopardi.
L’amara riflessione sulle vanità degli uomini di fronte all’indifferenza della natura, che non impedisce al poeta di scorgere nella solidarietà umana – nel riconoscersi fratelli nella disgrazia, e non concorrenti nella corsa a una illusoria felicità individuale – una via percorribile, una proposta, emerge come il tema che più riguarda da vicino la nostra contemporanea umanità, ancora accecata dal miraggio dell’accumulazione infinita come tramite di realizzazione. E’ il nulla che siamo a dover brillare come unico segnale di consapevolezza, sembra dirci Leopardi. La recitazione di Biagini regge con leggerezza e forza il cimento, introdotta da un appassionato e raffinato commento al testo, e ci appare come il tentativo, riuscito, di cantare con altri mezzi; la scommessa, vincente, di un incontro al vertice tra alta poesia e arte dell’attore. Con quel versetto di Giovanni “e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”, ripetuto in principio e sul finale da Biagini, già posto a esergo della canzone, che riverbera attorno i suoi cupi riflessi, vista l’attuale situazione del mondo, su cui la tenebra sembra essersi ancor più addensata.
Franco Acquaviva