di e con Saverio La Ruina
musiche originali eseguite dal vivo da Roberto Cherillo,
disegno luci Dario De Luca,
organizzazione Settimio Pisano
produzione Scena Verticale
con il sostegno di MIBAC | Regione Calabria
Teatro Sociale di Gualtieri, 2 luglio 2013
Con questo monologo, valsogli l'Ubu come migliore attore del 2012, La Ruina porta in scena una tragedia ai più sconosciuta: quella di migliaia di civili e militari italiani rimasti intrappolati ed internati in campi di lavoro in Albania al termine della Seconda Guerra Mondiale, prigionieri di fatto fino al 1989. Tra le moltitudini di connazionali "fascisti, capitalisti, amici dell'America e spie del Vaticano", come da definizione del regime sovietico di Hoxha, l'attore e autore calabrese estrapola la vicenda di Tonino Candesani, figlio di un milite italiano rimpatriato, cresciuto accanto alla madre in un tetro campo di lavoro albanese, insieme a schiatte innumerevoli di turchi, greci ed altra "marmaglia" filo-americana, tra vessazioni, torture eufemisticamente denominate "commissioni" e vessazioni di ogni genere. Accanto al degrado ed al sopruso, nel campo il giovane Tonino incontra anche la bellezza: il sarto del campo, altro italiano in prigionia e presto epurato, gli insegnerà, oltre alla lingua madre – un po' stentata e ricca di dialettismi meridionali – la bellezza dei colori e delle forme, facendo del ragazzo il proprio successore. E tra il filo di Scozia, quello spinato e il fango del campo sboccerà anche l'amore per Selma, la nipote dei custodi, nata libera e prigioniera a seguito del matrimonio con Tonino, da cui nasceranno tre figli italiani a metà.
Sullo sfondo delle vicissitudine della prigionia permane sempre vivido il sogno del ritorno alla terra – spiritualmente – natale, l'Italia - patria di artisti, poeti e musicisti con le sue città stupende–, e l'agognato incontro col padre mai conosciuto. Dopo il crollo del regime, sarà per il protagonista amaro confrontarsi, una volta raggiunto il Bel Paese, con l'indifferenza quasi ostile del padre ed i rimorsi e rimpianti che ne nasceranno, e con le difficoltà dell'integrazione. In un Paese che Tonino sognava potesse accoglierlo come un eroe si troverà trattato da "albanese", dopo quarant'anni di sofferenze inflittegli in Albania come "italiano": la differenza tra prigionia e sognata libertà verrà quindi sempre più assottigliandosi, poiché la condizione di diversità ed estraneità permarrà, radicata. Così alla denuncia della crudeltà dimenticata dei lager albanesi seguirà quella all'ostilità che l'Italia civile e democratica ancora manifesta verso l'immigrazione. Con la pacata perizia d'un abile sarto, La Ruina tesse con sapienza la narrazione, in un equilibrio impeccabile tra pathos e riflessione, con il ricorso ad espedienti formali estremamente eleganti ed efficaci, e coglie con la sola delicata forza della propria voce e dei gesti, lievi e misurati, il nucleo di dolore e commozione che quest'odissea dimenticata, e per tanti versi fallimentare, custodisce; con grande dolcezza e raffinatezza interpretativa ne restituisce una testimonianza d'alto valore civile, con l'ausilio d'una sola sedia, su una scena vuota, e delle ottime musiche di Roberto Cherillo.
Giulia Morelli