di Georg Büchner
traduzione Anita Raja
regia e scene Mario Martone
con (in ordine alfabetico) Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi,
Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte,
Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Paolo Mazzarelli, Lino Musella, Totò Onnis,
Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Maria Roveran,
Luciana Zazzera, Roberto Zibetti
e con Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino,
Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
registi collaboratori Alfonso Santagata e Paola Rota
scenografo collaboratore Gianni Murru
collaborazione di Bruno De Franceschi
Una produzione Teatro Stabile di Torino
Teatro Argentina di Roma dal 16 al 28 maggio 2017 - in ripresa autunno
- La Rivoluzione è un aquilone. Sai che non starà sempre in vetta, che qualche vento avverso lo abbatterà. Ma non si può fare a meno di amare, rincorrere gli aquiloni (anonimo)
- Per resistere a se stessa, la Rivoluzione dovrebbe essere permanente. Cioè farsi tensione, vocazioni etica, non imponibile a nessuno perchè inconciliabile con il libero arbitrio. Per resistere nel tempo la Rivoluzione si fà quindi regime, apparato, burocrazia, delazione. Snaturando la sua indispensabile natura-struttura di equità e libertà per l'uomo e la società (Noam Chomsky)
Al Teatro Argentina di Roma, la stagione si completa con l'ambizioso, vigoroso "La morte di Danton" di Buchner, regia di Mario Martone (di nuovo in tournée dal prossimo autunno)
Nel più bello, anzi brutto, della rivoluzione glabal-tecnologico-strozzina che (ignari e precari del "che ne sarà di noi?...polvere alla polvere") durerà almeno per tutto il secolo in corso, proviamo a ragionare di Rivoluzione con metodo, senza accensioni ideologiche e nemmeno sconforti da generazione perdente.
Ad iniziare dalla semplice constatazione che, con molta probabilità, idea e prassi della medesima sono 'conquiste' di era moderna (18° sec. dintorni), mentre nei tempi passati fu tutto un ribollire di tumulti, insurrezioni, guerriglie, regicidi e cambi di guardia (da Eschilo a Shakespeare non mancano gli esegeti-poeti), incastonati in quell'alveo leggendario e insindacabile che inizia dalla missione mistica di Mosè in rivolta contro l'Egitto per poi esaltarsi, più prosaicamente, in Spartacus terrore del patriziato romano e Robin Hood dei Potentati d'Inghilterra. Tralasciando (volutamente) i tanti Masaniello, Vespri siciliani, Cola di Rienzo e Peppa la Cannoniera, di cui pullulano le cronache "regionali" e di tanti "regimi", a comune denominatore della credulità e fuoco-fatuo del ribellarsi senza "mezzi di produzione" e gramsciano possesso di strumenti culturali propositivi ed antagonisti.
Ad un principio di Rivoluzione attendibile, analizzabile con le lenti della politologia e non del mito, si arriverà infatti con quella Francese e, oltre un secolo dopo con quella Russo-Sovietica, entrambe plasmate sulla carismatica presenza di leader, strateghi, ideologi, esecutori (spesso di lavoro sporco). E dall'inedita, innovativa, ambigua connotazione di Partito politico, bisognevole di esprimere una sua "rappresentanza" al Potere, che sarà vigore e sventura "delle avanguardie e della conservazione": con inesorabile, cartesiana regolarità
Non sappiamo se Buchner, vissuto poco più di vent'anni, a inizio 800, genio della scrittura e della ricerca scientifica (insigne anatomista), avesse conoscenza ed intuito per anticipare le tediose osservazioni del presente. Sta di fatto che tutto l'ingente spettacolo desunto da Mario Martone da "La morte di Danton", quegli strumenti (di critica e disillusione) li dà per acquisiti – quindi adatti ad essere il paradigma di una valutazione-concentrazione della Storia (che fu e che verrà) quale macchina celibe alla quale ci si sforza, per approssimazione, di dare un senso. Nonostante elementi e forze in campo (sopraffazione, sottomissione, egolatria, fanatismo) siano sempre eguali a se stesse, cambiando al massimo di costume, postura e contesto uomo-polis.
Scritto in sole cinque settimane, tra il gennaio e il febbraio del 1835, da un "genius" post-adolescenziale in fuga dalle autorità dell'Assia (dove era stato coinvolto in una rivolta locale), "La morte di Danton" (che anticipa di due anni il più celebre "Wojzeck" e di uno appena la fiaba filosofica di "Leonce e Lena") ha il suo perno sulla contrapposizione tra i due protagonisti di una tragedia collettiva: compagni prima e avversari in seguito, entrambi destinati alla ghigliottina a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro. Ed in linea con quel grumo di pensiero su cui Martone lavora almeno dal tempo di "Noi credevamo", ovvero l'inevitabilità con cui un moto di popolo finisce per divorare se stesso. E una sommossa nata per i più "nobili ideali" diventare spietato regime. O dissoluzione, 'ritorno a casa' di vittime e profittatori.
Immagini scandite, nel tempo e negli spazi a venire, dai "Dieci giorni che sconvolsero il mondo" (Russia, Rivoluzione d'Ottobre), dalle utopie tradite di Castro e della Rivoluzione cubana (rispetto all'integralismo messianico di Che Guevara), dalla degenerazione dei Soviet in comitati d'affari, morte d'esportazione (come nel caso di Trotskj) e incresciosa spartizione del pianeta in aree di influenza (nazismo, Yalta, imperialismo yankee, esportazioni necrofile di democrazia...)
Quale chiave espressiva adotta Martone per un allestimento così complesso, corale, talvolta di grana grossa? Quella di un'epica stracciona, mista di sangue, sudore e macchine di morte, alleviati da blande crapule fra postribolo e mal venereo. Prassi scenica che potrà anche infastidire per certi suoi passaggi kolossal o di compiaciute contaminazioni dialettal-iconografiche (così simili ai bassi di Napoli). Ma che resta vigorosa, impetuosa, collettiva, anche nel suo sbozzare antifrasi ed epifenomeni di "marmaglie di complemento".
Quasi un miracolo di "distillati attorali" e "tonali consonanze" nel comizio di incitamento alla presa della Bastiglia che completa il primo atto (con Robespierre e Sain Joust ad arringhiare con cinismo la plebe informe).
Restando Danton (Giuseppe Battiston, umana valanga di impeto e dubbio ragionevoli, epicurei) l'uomo in rivolta, solitario e solidale, perplesso di se stesso, che insegue l'stante, incerto al mattino se arriverà la sera, per lui e non solo. E Robespierre (il più sottile, esaltato, dialetticamente ferrato Paolo Pierobon) incarnazione ossuta, mingherlina, indomita di un "mito di Sisifo" che dall'intelletto proto borghese si scaraventa sulla massa: mucillagine cieca, impellente, assassina di un popolo plagiato, piegato e tumefatto dalla voragine del Termidoro, 'nutrita' di fame e parole d'ordine (narcosi dell'indigenza più infima: quella del libero arbitrio espiantato dalla miseria)
Buchner? Il meno romantico di epoca romantica, il testimone più disilluso, concreto, depurato di titanismo subliminale- osservatore della "dinamica delle cose... irrazionale... sempre più simile a quella dell'homo sapiens". Non esplicabile, men che mai incatenabile.
Angelo Pizzuto
Ottimi obiettivi raggiunti da Martone
Mario Martone, direttore artistico e regista stabile del Teatro Nazionale di Torino con "Danton" di Georg Buchner ha centrato diversi obiettivi che meritano un plauso.
Eccoli. Primo obiettivo: avere formato, in un tempo di grandi disagi economici per la cultura, una compagnia tra artisti e tecnici numerosissima: 29 attori, oltre i tecnici e servi di scena che agiscono in palcoscenico, oltre i tecnici luci e audio che agiscono dal fondo sala, il cui foglio paga fa tremare i polsi alla produzione.
Secondo obiettivo: una compagnia così fatta garantisce occupazione, mostra coraggio di investimento che il pubblico certamente gli riconoscerà vedendo agire nel teatro una pletora di attori giovani e meno giovani tutti mossi da sincera motivazione.
Terzo obiettivo: la scelta di un testo, redatto in cinque settimane dal giovane ventiduenne tedesco.
Georg Buchner, di difficile rappresentazione perché popolata drammaturgicamente da moltissimi monologhi, arringhe verso il popolo, dei protagonisti di questa ancor moderna opera, valida per accostamenti ai fatti contemporanei del nostro secolo, e che Martone, con una abile e ricca regia, ha sapientemente superato con un intrigante gioco di sipari di velluto rosso, (che si aprono e si chiudono a ritmo serrato sui tanti cambiamenti su scene che vedono pochi elementi scenografici essenziali), preludio al a quel tanto sangue versato nello storico momento della Comune francese, vissuta all'insegna della ghigliottina.
Terzo obiettivo: avere invaso tutto lo spazio del teatro dal palcoscenico alla platea, avvolgendo il pubblico e rendendolo consapevole di essere dentro una metafora teatrale, a cui rapportarsi con la giusta emozione e partecipazione.
Due suggerimenti li dobbiamo dare: poiché la platea a cui noi abbiamo assistito era popolata da molta gente attempata, anziché da giovani a cui i Teatri Nazionali dovrebbero tendere per un rinnovamento del pubblico, e che un'opera di così vitale importanza dovrebbe essere loro proposta, di rimodulare l'offerta del biglietto: 15 euro, prezzo ridotto, è sempre troppo alto per la tasca dei giovani. Inoltre, suggeriamo che qualche piccola sforbiciata andrebbe data al testo perché quattro ore di spettacolo, pur essendo ben interpretato, con i tempi di percezione di oggi, è sempre pur lungo.
Mario Mattia Giorgetti