Cavalleria rusticana
Melodramma in un atto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, dal dramma omonimo di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Pagliacci
Dramma in un prologo e due atti proprio
Musica di Ruggero Leoncavallo
Direttore Giampalo Bisanti
Regia Mario Martone
Ripresa da Federica Stefani
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Movimenti scenici Daniela Schiavone
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Maestro del coro Alberto Malazzi
Personaggi e interpreti
Cavalleria rusticana
Santuzza Saioa Hernández
Lola Francesca Di Sauro
Turiddu Brian Jagde
Alfio Roman Burdenko
Mamma Lucia Elena Zilio
Una voce Patrizia Molina (coro)
Pagliacci
Nedda Irina Lungu
Canio Fabio Sartori
Tonio Roman Burdenko
Peppe Jinxu Xiahou
Silvio Mattia Olivieri
Un contadino Gabriele Valsecchi (coro)
Altro contadino Luigi Albani (coro)
Produzione Teatro alla Scala
Milano, 26 aprile 2024
Il più classico dei dittici operistici torna al Teatro alla Scala nell’allestimento firmato nel 2011 da Mario Martone e convince ancora, anche per la notevole differenza di impostazione. Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni è letta dal regista nel segno dell’essenzialità. Niente Sicilia da cartolina, dunque, niente paesaggi assolati, fichi d’India o scorci agresti: coerentemente con il libretto, che ambienta la vicenda nel giorno di Pasqua e precisamente durante la messa, Martone ci fa vedere la celebrazione, con il coro quasi sempre sul palco, a seguire di spalle il rito. Pochissimi gli elementi scenici di Sergio Tramonti (le sedie per il coro, un grande crocifisso che cala a un certo punto sul fondo, un altare), sempre efficaci le luci fredde di Pasquale Mari, coerenti con il contesto ottocentesco i bei costumi di Ursula Patzak. Soprattutto, c’è un intelligente lavoro di Martone su coro e protagonisti (anche se non tutti, tra questi ultimi, fanno del loro meglio). In una cornice così spoglia, le laceranti passioni che infiammano la musica vengono ulteriormente valorizzate nella loro elementare, arcaica potenza. L’indisposta Elina Garanča viene sostituta all’ultimo dalla debuttante Saioa Hernandez, che offre un ritratto volitivo e tormentato di Santuzza, forte di una voce di indubbia bellezza nello smalto luminoso dei centri. L’accento è vibrante, la recitazione incisiva. Cosa - quest’ultima - che non si può dire del Turiddu di Brian Jagde, alquanto imbalsamato sul palco: per fortuna che la voce è bella, di notevole volume, e l’interprete è sicuro e vario. Roman Burdenko è un Alfio protervo e temibile, Francesca Di Sauro una seducente Lola, Elena Zilio è niente più e niente meno che sé stessa nei panni di mamma Lucia. Con Pagliacci di Leoncavallo Martone cambia del tutto registro e anima il palcoscenico con vivacità e colore, grazie anche alla presenza di un gruppo di bravissimi acrobati. La scena ci porta sotto uno squallido cavalcavia di una grande città, forse negli anni Settanta del secolo scorso. Lo stesso coro che in Cavalleria aveva agito quasi come fosse quello di una tragedia greca, qui si muove con disinvoltura, mentre i protagonisti rompono sovente la quarta parete. Fabio Sartori è un Canio di lusso, forte di una voce penetrante e ampia, di bel colore, e di una interpretazione sempre convincente perché mai sopra le righe. Irina Lungu, annunciata indisposta, viene a capo del ruolo di Nedda con onore, grazie anche alla indubbia musicalità e alle doti attoriali. Ritroviamo Burdenko nei panni del perfido Tonio - e si conferma cantante attore di solida affidabilità - mentre Mattia Olivieri (Silvio) unisce precisione musicale a notevolissima disinvoltura scenica e Jinxu Xiahou è un Peppe non più che gradevole. Apprezzabili anche le prove di Gabriele Valsecchi e Luigi Albani (due contadini), artisti del coro. Eccellente in entrambi i titoli la prestazione della compagine corale istruita da Alberto Malazzi, capace di un amalgama omogeneo e possente. Bravi anche i ragazzi del Coro di voci bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala, guidati da Marco De Gaspari. Resta da dire della direzione di Giampaolo Bisanti, che è musicista di razza, ma che in questa occasione abbiamo trovato poco originale e concentrato nell’approccio a entrambe le partiture, al di là di un facile effetto e di una certa qual sensibilità nell’accompagnare il canto. Fabio Larovere