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MDLSX - regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

"MDLSX" - regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Foto Simone-Stanislai "MDLSX" - regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Foto Simone-Stanislai

di Motus
con: Silvia Calderoni

regia: Enrico Casagrande & Daniela Nicolò


drammaturgia: Daniela Nicolò & Silvia Calderoni

suoni: Enrico Casagrande in collaborazione con Paolo Baldini e Damiano Bagli

luce e video: Alessio Spirli
produzione: Elisa Bartolucci & Valentina Zangari

promozione in Italia: Sandra Angelini

distribuzione estera: Lisa Gilardino
produzione Motus 2015 in collaborazione con La Villette – Résidence d'artistes 2015 Parigi,
Create to Connect (EU project) Bunker/ Mladi Levi Festival Lubiana,
Santarcangelo 2015 Festival Internazionale del Teatro in Piazza, L'arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, MARCHE TEATRO
Milano, Teatro Elfo Puccini, 21 giugno 2017

www.Sipario.it, 27 giugno 2017

Ma tu como te sientes? La voce inconfondibile di Jodorowski risuona nello spazio rivolta a una donna che sta raccontando cosa sia la filosofia Queer, che vede le rigide distinzioni di genere cui siamo abituati essere il frutto non di un processo naturale ma della cultura, e in special modo "dell'ideologia capitalistica del tardo secolo XIX", mentre in natura le cose sono più sfumate, dice la voce di donna, più ambigue; ed ecco Jodoroswki, sempre in audio, intervenire con una frase del tipo: "sì, ma che vuol dire che tu sei aldilà sia della mascolinità sia della femminilità? Insomma", domanda, "tu como te sientes?".

Da questo momento in poi ci pare che lo spettacolo di Motus, MDLSX, con Silvia Calderoni unica performer operi un salto: finora la pur suggestiva messinscena era sembrata poco più di una sorta di manifesto queer, uno svolgimento a tesi, anche se fin da subito era apparso chiaro che la storia che per flash ci viene raccontata ha profondamente a che fare con Silvia Calderoni.

Il lavoro comincia con un filmato proiettato sullo schermo di fondo, dove vediamo una Silvia ragazzina, ripresa in super 8, cimentarsi al karaoke con la celeberrima canzone di Gianni Morandi "C'era un ragazzo che come me"; e ne viene una tenera e comica inadeguatezza della pur sonora vocina a star dietro all'intonazione, e tuttavia insieme una sorta di determinazione, di convinzione, pur nell'evidente incapacità, come se la giovane Silvia stesse sperimentando qualcosa di importante di sé nel tentativo di aderire comunque alla melodia; il che rende infine la stonata performance quasi il presagio di un potenziale, personalissimo canto, poiché esso non si attesta quasi mai sulla naturalità dell'intonazione, ma svaria su è giù, fuori e dentro di essa, a costruire un'altra canzone, non meno bella in fondo dell'originale (fra l'altro in quest'era di talent show, dove tutti i ragazzini cantano mediamente bene, ma con voci stereotipate uguali una all'altra, il canto spiegato e stonato di qualche decennio fa della ragazzina Silvia, che apre lo spettacolo, sembra alludere a una freschezza, ad un'autenticità perdute nell'attuale mainstream della vocalità perfettina e conformistica, dove la deviazione dalla norma è, ancor più che in passato, bollata come inaccettabile, in qualche modo "mostruosa").

Lo schermo su cui vediamo la ripresa del karaoke è composto di due elementi: un medaglione a cornice tonda, sospeso sulla sinistra della scena, che accoglierà quasi sempre i filmati in super 8 tratti dall'adolescenza della Calderoni, e il grande schermo vero e proprio, posto sul fondo, che rimanda la traduzione in inglese del testo che la performer snocciola e insieme l'informazione sulle tracce musicali che costruiscono una colonna sonora onnipervasiva. Perché lo spettacolo può essere visto anche come un dj-set sui generis, nel quale la performer traccia anche un percorso musicale nel rock-pop anni 80-90 come un personale album dei ricordi. E non solo la vediamo agire sul mixerino posto in fondo, dando e togliendo musica, rivolta verso un lungo tavolo che attraversa la scena nel senso della larghezza, e dunque dando quasi sempre le spalle al pubblico, ma anche inquadrarsi in una videocamera che diventa sua partner, manovrata, spostata, alzata, abbassata, impugnata, che la riprende da tutte le angolature possibili; e la sentiamo parlare dentro a due diverse tipologie di microfono che restituiscono una voce ora limpida ora deformata, con effetto da grammofono vintage.

Ed è questa situazione, quasi fossimo a una festa dove lei è la festeggiata e noi gli invitati muti, illuminati al principio da una luce fucsia che ammanta dolcemente la platea e che torna in chiusura di spettacolo a suscitarci testimoni, anzi voyeur, in una sequenza dove Calderoni, citando parti del romanzo Middlesex di Jeffrey Eugenides, diventa nuotatrice freak con coda di sirena per il piacere di un pubblico da peep show, è questa situazione dicevo a protrarsi per tutto lo spettacolo, nel quale vediamo emergere lacerti di una biografia prima quasi ordinaria poi, con la scoperta dell'ambiguità sessuale della protagonista, gettata in balia della confusione e del dolore.

Veniamo a sapere che Sivia, e con lei la protagonista del romanzo Calliope (Cal), intrecciati dalla drammaturgia in un gioco di rimandi tra finzione e realtà, a partire dalla pubertà ha scoperto di non essere del tutto femmina, anche se genitalmente tale, e non del tutto maschio; da qui smarrimento, confusione, disagio che vediamo resi scenicamente da una serie di quadri nei quali la performer danza, si agita, si getta a terra, si contorce, si denuda, si tormenta i capezzoli, si scuote; sono fantasmi che vediamo oggettivarsi in sequenze energeticamente forti, dove l'uso di accessori (alcune parrucche, un trolley rigido, una bomboletta spray), si alterna a sequenze di vestizione e svestizione con diversi capi, in nudità parziali o totali mai esibite ma sempre coerenti nel loro mostrare un corpo che non vuole decidersi a stare di qua o di là, un corpo che Silvia ci mostra in tutta la sua forza espressiva e iconica, dalla grazia e dalla silhouette femminili ma con un'energia muscolare, un'agilità, un'attitudine posturale anche maschili; un volto nitido come una testa greca, dove la forza della mandibola ben disegnata e dalla linea leggera, l'importanza del naso deciso, segnano un ombra di virilità sulle labbra carnose, sugli occhi scuri profondi di una donna cerbiatta-amazzone.

Avvertiamo la progressione dal disagio alla disperazione nel momento in cui il medico diagnostica crudamente l'umbratilità e la fragilità di una condizione sessuale in sboccio ancora incerta - di un'apertura alla vita, dove a sgorgare sono le energie tenere e forti della prima adolescenza - imponendo loro il giogo terminologico di una presunta patologia, che spinge la giovane a ricercare il significato di quel termine che dovrebbe descrivere il suo stato particolare, e che per successivi rimandi la porta a scoprire l'evidenza di ciò che esso significa per i medici e per il mondo, sintetizzandolo in una parola: "mostro, mostro, sono un mostro!", urlata più volte nel microfono.

A un certo punto il senso profondo degli argomenti legati alla teoria queer o alla tematica transgender viene ben individuato, e trasceso, da un passaggio del testo in cui la protagonista constata come in fondo noi siamo fatti di tante parti, non di una sola sostanza; siamo uomo e donna insieme, siamo animale, pianta; forse, si potrebbe aggiungere, abbiamo dentro un pezzo di cielo, di minerale, di montagna, un gorgo marino: ebbene, di questo senso di completa interconnessione della coscienza con tutte le cose e con tutti gli aspetti della vita non ci hanno forse sempre dato testimonianza i grandi poeti o i grandi mistici?

Siamo di fronte alla storia di una donna che ha dovuto fare i cointi con questa lacerazione prima e reintegrazione poi, la quale si oggettiva poi sul finale con la commossa richiamata in causa del fratello e del padre, nel momento in cui il primo accoglie di nuovo a casa la sorella dopo un sofferto percorso esistenziale, mentre al padre che la interpella con una frase come: "ma non sarebbe stato più semplice se fossi rimasta com'eri?", lei risponde: "papà, sono sempre stata così", affermando il senso profondo del viaggio di scoperta di sé che, circolarmente, rimanda poi sempre e solo a se stessi.

Lo spettacolo è un intreccio ben dosato di cose note in sé, ma che nella dinamica della scrittura scenica paiono alludere a qualcosa d'inedito: abbiamo visto all'opera molte volte modalità performative in cui il corpo danza il proprio ubi consistam, il proprio evento posturale, il proprio dinamismo energetico, il proprio animus/anima; ci è nota la scenica statica del dj set; l'impatto visivo di luci e proiezioni di matrice psichedelica; la suggestione del parlar microfonico; la forza evocativa dell'esposizione attorale allo specchio deformante della videocamera, qui usata come accessorio di scena; abbiamo già visto altre volte tappeti di scena che fanno da suolo artificiale all'attore - in questo caso una pseudo stoffa argento cangiante oro che riflette ogni barbaglio di luce - diventare anch'esso accessorio e venir manipolato dal gestire scenico della performer; possiamo dire in fondo di aver già visto tutto ciò separatamente, tuttavia ogni cosa qui è come fusa e trasfigurata dalla fisicità punk di animale rock, dalla presenza pura, di Silvia Calderoni; dall'estremismo quasi santo di un suo darsi in pasto alla scena senza autolesionismo, e dunque narcisismo della sofferenza o maledettismo di maniera o posa, in un'estrema, radicale sincerità che pervade e armonizza e scuote vigorosamente tutto il tessuto della scrittura scenica; cosicchè aldilà dell'aspetto visivo e formale, quello che rimane è questo atto di sincerità talmente disarmante, tuttavia realizzato con le armi ben affilate della regia sapiente di Daniela Niccolò ed Enrico Casagrande, che alla fine, sullo scoccare dell'ultima battuta e dell'ultimo fantasma esalato dal super 8 a colori, ci colpisce e commuove profondamente.

Perché poi, malgrado l'apparato visivo-sonoro lisergico o psichedelico o post punk, nitidissimo e fascinoso, quello che arriva è un messaggio universale: la natura è più ricca di quanto le nostre povere categorie non riescano a immaginare, e l'amore si distende nel mondo come un'energia che abbraccia le cose dal di dentro; tutto ne è pervaso, anche ciò che la società tende a incasellare come mostruoso o contro-natura.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Sabato, 01 Luglio 2017 22:43

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