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MALINTESO (IL) - regia Pietro Carriglio

Il malinteso Il malinteso Regia Pietro Carriglio

di Albert Camus
traduzione: Vito Pandolfi
regia, scene e costumi: Pietro Carriglio
con Giuliana Lojodice, Galatea Ranzi, Luca Lazzareschi, Valentina Bardi
Palermo, Teatro Bellini dal 12 al 27 febbraio 2008

Il Messaggero, 16 febbraio 2008
La Stampa, 24 febbraio 2008
Il Giornale, 27 febbraio 2008
Corriere della Sera, 23 marzo 2008
www.Sipario.it, 13 aprile 2008
Un gran "Malinteso"

Lo guardi in faccia, Albert Camus, e gli trovi addosso, negli occhi, sulla fronte, persino all'angolo delle labbra, dove poggia svogliata la sigaretta, l'ansia di spietatezza e di sole che riempie Il malinteso, la sua pièce andata in scena per la prima volta nel 1944, Parigi, al Théòtre des Mathurins. Le fotografie in bianco e nero dello scrittore de Lo straniero e de La peste, nato ad Algeri e rimasto volontariamente schiavo della Città Bianca e dei suoi orizzonti, ci rimanda lo spirito estinto del visionario nutrito di classicità che Camus è stato, nella letteratura e in teatro. Merita, Il malinteso, il riuscitissimo allestimento firmato da Pietro Carriglio (l'altra sera al Bellini di Palermo e dal 4 marzo all'Eliseo di Roma). E' uno spettacolo che rispetta ed esalta la crudeltà pietosa dell'autore nei confronti dell'Uomo, costantemente in lotta con il concetto di Dio; la sua capacità di rischiare oltre il pensabile per afferrare un'utopia di salute e libertà; il coraggio di sfidare l'assenza possibile del trascendente in nome di un odio uguale all'amore. Amore assoluto.
La trama: una Madre e una Figlia, Marta, uccidono a ripetizione gli avventori ricchi e soli della pensioncina che gestiscono in un piccolo paese. Mettono da parte il denaro necessario per cambiare orizzonte. La ragazza aspira a vivere in un Sud assolato che la risveglierebbe alla vita e ai sensi, e a un certo punto, accecata dalla voluttà dell'obiettivo, non percepisce chi sia l'ennesima vittima del sistematico uccidere di cui si macchia: il fratello Jan, riemerso dal tempo dopo troppi anni di assenza.
Carriglio manovra questa materia, insieme moderna e ancestrale, come una tragedia euripidea, alla quale non nega trasparenze scenografiche (magnifiche) che citano prospettive micenee, labirinti insondabili dove perdere e ritrovare, di continuo, il Minotauro-Dio e viceversa. Bravissimi gli attori, innanzitutto Giuliana Lojodice (la Madre) che riesce a "recitare" in modo raro lo svuotamento della femmina invecchiata per inerzia, e, sempre per inerzia, assassina; Galatea Ranzi, intensissima, terrifica e assoluta nel ruolo di una Marta antiElettra; Luca Lazzareschi, trepido Jan antiOreste cui il ritorno sfugge eternamente. Valentina Bardi interpreta l'attonita moglie di Jan. Lo stesso Carriglio si concede la parte del vecchio domestico, io epico dell'autore che tutto scruta e anatomizza fino ad incarnare, all'epilogo, il dio negante. Uno spettacolo da non perdere.

Rita Sala

Camus vince con un tris d'assi

Morta nell'età moderna la tragedia per le ragioni illustrate in un famoso saggio di George Steiner, il teatro borghese le sostituì la disgrazia, l'incidente, l'equivoco fatale. Nel Ventiquattro febbraio, drammone di Zacharias Werner che fu popolarissimo prima in Germania e poi nell'Inghilterra del primo Settecento grazie alla rielaborazione di George Lillo (Fatal Curiosity, 1736), una coppia di miserabili locandieri ammazza per derubarlo un viaggiatore prima di accorgersi che è il loro figlio tornato in incognito e ricco dopo una lunghissima assenza.

Riprendendo in mano questa situazione nel 1943, Albert Camus ne fece, ne Il malinteso, una parabola laica sull'insensatezza e l'inspiegabilità del Male. I locandieri sono ora madre e figlia, due donne che come le zitelle di Arsenico e vecchi merletti avvelenano sistematicamente e fanno sparire i loro ospiti occasionali, la figlia raccontandosi di voler così procurarsi il denaro per vedere finalmente il sole e il mare (vivono in un paesino sordido e meteorologicamente sciagurato), mentre in realtà sfoga le proprie frustrazioni punendo chiunque abbia la colpa di non essere altrettanto disgraziato di lei che non ha mai conosciuto un attimo di felicità ("nemmeno un bacio in tutta la vita"). Il figlio e fratello che si presenta a chiedere una stanza - naturalmente sono tutte libere - non si rivela, per motivi che non saranno mai chiariti, e non viene riconosciuto; anche a noi la sua identità sarà rivelata solo dopo l'esecuzione capitale. Delle carnefici, la più anziana ha per la verità qualche esitazione e poi, quando scopre la verità, si uccide. Invece la più giovane non vacilla, e anzi non si mostra minimamente pentita nemmeno dopo. Non senza incongruenze, Camus fa arrivare un nuovo personaggio, la moglie della vittima (nell'originale costei è presentata all'inizio per poi essere messa da parte, scena saggiamente tagliata nell'allestimento odierno), per dare all'assassina il modo di ribadire la propria ostinazione.

Difficilmente questo testo claustrofobico e irriducibile nella sua negatività potrà trovare un difensore più appassionato del regista Pietro Carriglio, che lo porge con la delicatezza con cui un archeologo mostrerebbe un reperto prezioso, ancora tutto da decifrare. Scenografia e costumi, sempre di Carriglio, collocano la vicenda in una fine secolo tra Ibsen e Maeterlinck, con un fregio Jugendstil che decora il fondale come un misterioso ideogramma alla Klee; e gli attori si muovono ieraticamente, scandendo le battute con una limpidezza inflessibile, come sfidandoci a guardare l'abisso senza distogliere gli occhi. La gestualità è quasi assente, le pochissime azioni - sollevare una valigia, riempirsi un bicchiere - hanno la solennità del rito. Riuscire a sostenere questo per due ore e 10, brevi intervalli compresi, richiede interpreti di una autorevolezza eccezionale, e lo spettacolo li sfoggia. Giuliana Lojodice, Galatea Ranzi e Luca Lazzareschi sono mirabili per compostezza, intensità, fiati; non si potrebbe chiedere di più. Come la moglie, una vera tinca, Valentina Bardi arriva tardi e fa quello che può. Nel grembiule nero di un servitore quasi muto, lo stesso Carriglio entra ogni tanto e contempla quanto accade con l'assorta curiosità del regista che interroga il lavoro con cui si sta misurando.

Masolino d'Amico

Jan, un eroe perduto e sconfitto dalle Furie del focolare

La hall di un albergo in un'ignota città dell'Est europeo, due donne imprigionate in rigide vesti plumbee. Un cliente che non rivela alle sue ospiti di essere fratello dell'una e figlio dell'altra. Che le ha abbandonate vent'anni prima per cercar fortuna oltremare. E che ora fa ritorno come il figliuol prodigo per essere riammesso nel circuito degli affetti familiari. Ma viene ucciso dalle tremende Furie che ora occupano, nel focolare domestico, il posto delle divinità matriarcali dato che non ha trovato le parole per farsi riconoscere.
Perché Jan, l'eroe del Malinteso di Camus, specchio di una generazione perduta nell'inferno della guerra, non sospetta la tremenda verità? Come mai si perde nella contemplazione del tempo perduto senza aver la forza di reagire? Camus non lo svela. Si limita, nel suo capolavoro teatrale, a spiegarci il movente di quel crimine efferato. Il denaro che le due donne sottraggono alla vittima servirà per evadere da quella terra di nebbie e d'orrore che è diventata l'Europa (il dramma è stato scritto sotto l'occupazione nazista) per raggiungere la terra promessa dalla fantasia: l'Africa immaginaria dove il sole si specchia nel mare. Ma ecco la tragedia di nuovo imporsi, come Camus pretendeva adattando da par suo l'Orestea ai nuovi tremendi tempi delle stragi di massa. Giunge, al posto del deus-ex-machina dei greci, la moglie di Jan disperata per la scomparsa del marito. E le due donne che poco prima sono state informate dell'identità della vittima per colpa del Servo Muto che nelle vesti inesorabili del Fato ha consegnato loro il passaporto di Jan, non reggono alla rivelazione suicidandosi come Giocasta nell'Edipo re.
Questo dramma-manifesto del disagio esistenziale è stato mirabilmente esumato da Pietro Carriglio. Cui si deve, oltre alla regia, l'inquietante segno grafico della scena. Dove un lungo tavolo sacrificale si erge davanti a una paratìa occupata da un sinistro ideogramma. In questo spazio della memoria intermittente Giuliana Lojodice e Galatea Ranzi lasciano cadere parole e pause di magica suggestione, laureandosi grandi attrici tutt'uno al magnetico Luca Lazzareschi e allo stesso Carriglio nel cameo del Servo in uno spettacolo d'altissima suggestione che onora il teatro italiano.

Enrico Groppali

Camus tra idee e assenza di Dio

Ne avevo un ricordo lugubre, sempre più confuso con il passare degli anni. Rivedere Il malinteso di Albert Camus mi attraeva. Chissà che non mi fossi sbagliato. L' edizione di Pietro Carriglio peggiora il ricordo. Colpa di Carriglio? Egli è un regista tanto accurato quanto geloso del proprio regno, al teatro Biondo di Palermo le regie sono tutte sue, o giù di lì. Alla lunga, potrebbe non giovare all' insieme della produzione. Ma non voglio farne una questione di quantità, sebbene sia sbarcato a Roma con tre spettacoli uno dopo l' altro. Il problema è la qualità del singolo prodotto. L' idea che si ricava assistendo a Il malinteso è che Carriglio creda ciecamente in Camus o, meglio, nel suo dramma. Crede in quella problematica pseudo-antica, crede nel caso e nel destino, crede nei paroloni di cui lo scrittore si ammanta. Per me, invece, sono tutte sciocchezze. Pensando a Robbe-Grillet e alla sua polemica contro Sartre e Camus, non si può che dargli ragione. Robbe-Grillet, Simon, Butor, la Sarraute, Perec sono molto più artisti dei due dioscuri, i due belligeranti Sartre-Camus! Gli artefici del nouveau roman non avevano bisogno di esibire alcunché. Benché sia una figura ineludibile, Camus non riesce a sottrarsi a questa condanna. Ma le sue grandi opere non sono Lo straniero, La peste, La caduta e i vari drammi. Sono i due saggi, Il mito di Sisifo e L' uomo in rivolta. È che Camus aveva carattere: come tanti scrittori volontaristici, aveva una posizione. Non aveva immaginazione, tanto meno capacità di ascolto e fantasia. Dei personaggi, cioè delle persone una per una, lui così fiero sostenitore della libertà individuale, gli importava poco. Gli interessavano, dicono i suoi sostenitori, le idee; gli interessava il travaglio, il conflitto tra un' idea e l' altra, come nell' antica tragedia. Ma un conto è la Grecia del V secolo a.C. e un conto è la Francia del 1940, quando l' abitudine al realismo e la sua urgenza sono una vera necessità, mai più venuta meno, neppur oggi. I punti deboli de Il malinteso sono due, uno strutturale, l' altro stilistico. Per il primo, la metafora per così dire realistica (albergo-patria) non regge il peso del significato che Camus vuole trasmettere. Il figlio torna a casa, è un figlio prodigo, ma non si fa riconoscere (perché? non è chiaro). La madre e la sorella, proprietarie di un albergo, usano eliminare i loro ospiti (perché? per conquistarsi un posto al sole, ciò che tutti i piccolo-borghesi senza colpo ferire poco dopo realizzarono: la casetta in riva al mare). Che fanno le due sciagurate? Uccidono il figlio e fratello (perché? perché, va da sé, non lo riconoscono, come nella faccenda di Edipo). Da un punto di vista stilistico, il tono è sempre alto, anche quando si devono dire frasi qualunque. «Avete visto, l' alba è venuta». Ma chi parla così? Qui, invece, tutti parlano così, e sempre lo fanno. In più, nello spettacolo di Carriglio, il raddoppio è costante. La scena non disegna un albergo, ma uno spazio astratto. Gli interpreti pronunciano le loro battute come fossero oracoli, sentenze, aforismi - dolenti, dolorosi, quel che si vuole, ma pur sempre in forma lapidaria, con una quantità di spazi bianchi, ovvero di pause, tra l' una e l' altra. Quello che se la cava meglio è Luca Lazzareschi, l' unico che tenda a smorzare. Galatea Ranzi è prossima ai suoi standard di semi-solennità. Più sacrificata, Giuliana Lojodice. Valentina Bardi è la moglie del figlio prodigo. Lo stesso Carriglio è il servo muto, che alla fine è Dio in persona, il grande assente.

Franco Cordelli

Il silenzio è una lingua dura. In grado di riempire il vuoto delle parole. Di essere più dialettico delle parole stesse. Nel silenzio i problemi si aprono, nelle parole si chiudono. Ma a volte il silenzio può somigliare alla morte. A quell’eterna nemica che aleggia sin dalle prime battute ne Il malinteso di Camus. Un dramma del 1944 molto amato da Pietro Carriglio, da firmare regia scene e costumi e calcare per la prima volta il palcoscenico vestendo il ruolo muto del “vecchio domestico”: una sorta di angelo o di diavolo che attraversa più volte la scena e a cui spetta, con quel suo “no” finale, di castigare chiunque. L’inizio dello spettacolo è da antologia teatrale. Solo due donne mute distanti tra loro divise da un tavolo rettangolare catapultate in uno spazio dalle quinte pietrificate con sullo sfondo un grande geroglifico pittato, somigliante ad un percorso labirintico che finisce al centro con delle cellette quadrate. Prima che le due donne emettano verbo sembra che passi un’eternità. La madre è senza nome. E’ come la madre terra, nobile e antica. La figlia invece di nome fa Marta. Entrambe avvolte da lunghi grembiuloni antracite sembrano delle secondine, delle kapo senza anima e senza cuore. La madre, agghindata con ieratica glacialità da Giuliana Lojodice, quasi un volto statuario di matrona etrusca, porta sulle spalle uno scialle e ha i capelli raccolti a crocchia. La Marta di Galatea Ranzi, che nel corso dello spettacolo rivelerà doti straordinarie di grandissima attrice, ha i capelli lisci con riga in mezzo raccolti in tupè, misura le parole che dice, spesso pronunciate con il busto in avanti, talchè le sue rigide posture sono frutto del suo patrimonio neuronale, fragile e duro nel contempo, che tuttavia riesce sempre a controllare. In questo gioco di silenzi le loro parole appaiono pesanti come macigni e si capisce che ci troviamo di fronte a due assassine che mentre dirigono un alberghetto ammazzano e derubano i loro clienti facendoli poi annegare in fondo al fiume, avendo in mente, in particolare Marta, l’idea d’evadere da quel luogo e sistemarsi in una casa vicino al mare. Un bel giorno però piomba in quell’insano posto, dopo venti anni di assenza, un elegante giovane che non supera la quarantina che è figlio e fratello di quelle due locandiere. Si chiama Jan, è vestito con i modi più garbati da Luca Lazzareschi, è giunto lì con la moglie Maria (Valentina Bardi) che comparirà in un secondo momento, non rivela chi è realmente, spera solo che siano quelle due nere figure a svelare la sua identità. La qual cosa non accade perché Jan morirà con il solito veleno sciolto in una tazza di thè come tutti quelli che lo hanno preceduto e il dramma si tinge di giallo alla Hitchcock. La madre che aveva immaginato questo terribile epilogo, si suiciderà nel fiume e anche Marta subirà la stessa sorte dopo aver rivelato alla sbigottita cognata Maria l’orribile fattaccio. E mentre costei supplica quel servo muto d’aiutarla, riceverà come risposta un “no” che rimbomba come un tuono.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Venerdì, 11 Ottobre 2013 11:37

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