di Niccolò Macchiavelli
regia: Marco Sciaccaluga
scene e costumi: Valeria Manari
musiche: Andrea Nicolini
luci: Sandro Sussi
Interpreti: Ugo Pagliai, Gianluca Gobbi, Massimo Mesciulam, Alice Arcuri, Barbara Moselli, Enzo Paci, Pier Luigi Pasino, Silvia Quarantini
Teatro Stabile di Genova. Teatro della Corte. Genova 2007
Un attore di grande prestigio, quale Ugo Pagliai, con un regista di tutto rispetto quale Marco Sciaccaluga, propongono in queste sere al Teatro Eliseo di Roma quella gradevole opera di Niccolò Macchiavelli che è "La mandragola". In scena con Pagliai, che per la sua insita bravura riscuote applausi e simpatie del pubblico nel ruolo dell'ingenuo credulone Messer Nicia, vittima del perfido intrigo tesogli da Callimaco, la cui parte è interpretata con disinvolta bravura da Gianluca Gobbi. A tessere la storia contribuiscono pure con impegno: Massimo Mesciulam (frà Timoteo), Alice Arcuri (Lucrezia) Enzo Paci, Pier Luigi Pasino, Barbara Moselli e Silvia Quarantini. La scena e i costumi sono di Valeria Manari, le musiche di Andrea Nicolini, le luci di Sandro Sussi. La regia curata da Marco Sciaccaluga fa sì che la vicenda si svolga di continuo suo filo dell'ironia non senza una moraleggiante conclusione. Ambientata dunque nella Firenze del 1504, "La mandragola" è stata presumibilmente scritta da Machiavelli nel decennio seguente e rappresentata con grande successo quando il suo autore era ancora in vita. Nel mettere in scena un mondo dominato da calcoli, interessi meschini e passioni irrefrenabili, l'autore mescola personaggi tipici della commedia di Plauto e di Terenzio (il padrone, il servo, l'innamorato) ad altri che ricordano da vicino quelli delle novelle trecentesche: il frate e il marito sciocco e gabbato. Egli si sofferma con ironia tagliente e disillusa a descrivere quel mondo che ai suoi occhi di moralista politico appariva degradato e in rovina, insensibile a ogni correzione, ma consegna infine alla storia del teatro un capolavoro che, pur su sfondo tutt'altro che ottimista, è attraversato da uno spirito giocoso, piacevole e divertente. In un suo saggio Benedetto Croce inquadra "La mandragola" quale "commedia dalla rassegnata chiaroveggenza", là dove "rassegnato" sta per scettico, qualunquista, senza religione, e "chiaroveggenza" significa anche spietatezza e cattiveria. Una tesi questa ripresa pure dal critico teatrale Sandro De Feo, il quale ribadisce che così rassegnato e chiaroveggente aveva fatto Machiavelli "il suo tristo tempo" che un giorno, meditando probabilmente sui fatti dell'antica Roma, sullo stupro di Lucrezia com'è narrato da Livio, si sarà posto questa domanda: "Che accadrebbe oggi a una Lucrezia, della stessa virtù come l'altra, se un uomo la violasse?". Vediamo un poco, si disse, e cominciò a immaginare la storia, seguendo dapprima la falsariga della famosa narrazione. Un giorno dunque a Parigi, sotto le mura di Ardea, alcuni giovani di belle speranze sono riuniti ad ammazzare il tempo e discorrono tra una coppa e l'altra di buon vino delle cose di cui abitualmente parlano più volentieri; ovvero di belle donne, delle facili o anche delle meno facili o addirittura imprendibili tra loro. La più bella e imprendibile di tutte, secondo l'elogio che ne fa un suo concittadino e parente, è una tale Lucrezia fiorentina, moglie di messer Nicia, come l'altra elogiata Lucrezia era moglie di Collatino. Le lodi sono così sperticate che accendono le brame del giovane Callimaco, come allora accesero quelle di Sesto Tarquinio. Ed è così bruciante quella voglia, che Callimaco parte subito e deciso a tutto alla volta di Firenze, come allora Tarquinio se ne andò a raggiungere Roma. A questo punto ha inizio "La mandragola", ma a questo punto il racconto della Lucrezia di Machiavelli si discosta da quello della Lucrezia antica. Per Sesto Tarquinio non esiste altra via che la violenza se vuole avere ragione delle seducenti virtù di Lucrezia. Certo gli inganni saranno esistiti anche a quei tempi, con corredo di ruffiani dall'intelligenza del demonio, di mariti sciocchi, di madri bigotte e credulone, di preti tristi. Ma certamente non era questa la regola, si trattava dell'eccezione. E i grandi storici, che sono anche grandi scrittori moralisti, come Tito Livio e Machiavelli, non si sentono certo offesi dall'eccezione, bensì dalla regola. Volendo trarre così una morale non arbitraria dai singoli racconti, al Tarquinio di Livio non rimaneva che la violenza e lo stupro per stare con la Lucrezia di quei tempi, mentre al Callimaco di Machiavelli erano aperte le porte di tutti gli inganni, per andare a letto con la sua Lucrezia. Ciò in quanto i tempi di Callimaco e Machiavelli pullulavano di preti tristi, di mezzani demoniaci, di mariti sciocchi e di madri bigotte. Ma qui sta il punto dell'immortalità letteraria de "La mandragola". Se Machiavelli avesse portato Callimaco nel letto di Lucrezia, non con l'inganno e con l'aiuto dei perfidi gaglioffi, ma con la violenza e il sangue, il testo di cui si parla avrebbe raggiunto le molte opere morte che riposano nel museo cinquecentesco della "commedia erudita" imitata dall'antico.
Renato Ribaud
Come non ripetere, dopo il vibrante Anfitrione interpretato durante l'estate a Siracusa, nell'Eracle di Euripide, che Ugo Pagliai ha forse deciso di spopolare in scena con titoli e personaggi i più diversi, giganteggiando quanto si sarebbe potuto concedere anche prima? E' questo il pensiero cui ci si lascia andare davanti al bellissimo Messer Nicia che l'attore pistoiese mette in campo all' Eliseo nella Mandragola di Machiavelli diretta, con estremo rigore, da Marco Sciaccaluga per un cast che comprende l'ottimo Gianluca Gobbi (Callimaco), Massimo Mesciulam (frate Timoteo) e Alice Arcuri (Lucrezia). La scena e i costumi, capaci di evocare le macchine leonardesche e, più in esteso, la Firenze rinascimentale di genio e lascivia, sono di Valeria Manari.
Il meccanismo della commedia, inossidabile, risale alla maliza cinquecentesca che rielaborava con gusto gli schemi latini. E qui, sornione, si rivela in tutta la sua efficienza. prima perché reso nell'italiano dell'epoca ben pronunciato dali attori, poi perché "esposto" dalla regia così com'è, senza inutili fronzoli, forte dei propri sapori. La storia? Un vecchio marito gabbato, una moglie bella da ingravidare, uno spasimante astutissimo che si serve, per possedere la donna, della corruttibilità del solito fratacchione compiacente. Roba per attori che sappiano gettare in palcoscenico la scabra dissolutezza del Rinascimento nella città dei Medici senza, per questo, esagerare, facendola passare per caricatura. Ci riesce innanzitutto Pagliai, un Nicia truccato da maschera dell'Arte capace di dare al personaggio non solo le caratteristiche del "tipo", bensì certi tagli dolorosi e attoniti che ci trasmettono anche la tristezza moderna, borghese delle corna. E Gobbi (Callimaco) gli risponde come deve.
R.S.
Etta Cascini