di Federico Garcia Lorca Traduzione di Marcello Fois
drammaturgia di Marcello Fois e Serena Sinigaglia
regia di Serena Sinigaglia
scene di Maria Spazzi, costumi di Federica Ponissi, musiche originali di Gavino Murgia
Con Maria Grazia Bodio, Marco Brinzi, Lia Careddu, Mattia Fabris, Sax Nicosia, Isella Orchis, Cesare Saliu, Sandra Zoccolan
Produzione: Teatro Stabile della Sardegna, ATIR
Milano, Teatro Ringhiera 2010
La mia generazione ha scoperto ed amato nell'adolescenza le poesie di Garcia Lorca, e solo successivamente si è avvicinata alle sue opere teatrali; ma credo si possa sostenere che, anche in queste, Lorca sia poeta prima che drammaturgo, che nella sua pagina la valenza evocativa della parola prevalga su quella comunicativa. E ciò è tanto più vero in una tragedia (così la definisce l'autore) come Bodas de Sangre.
Restituirne in modo non oleografico le atmosfere arcaiche, gli umori terragni, è un problema che si pone chiunque tenti di mettere in scena Garcia Lorca.
Serena Sinigaglia, che spesso ci ha spiazzato per la franchezza, a volte commovente, con la quale ama renderci partecipi delle ragioni personali di certe sue soluzioni registiche, qui ci confessa di aver percepito come un ostacolo la lingua italiana, quando si è avvicinata la prima volta a Nozze di sangue; e non esita ad affermare, paradossalmente, che la lingua barbaricina ha rimosso quell'ostacolo. Il fatto singolare è che, alla prova dei fatti, la cosa funziona davvero.
Marcello Fois ha tradotto la tragedia nella lingua della sua terra – la Barbagia, appunto – dove certe ritualità, certi codici di comportamento hanno affinità, non solo linguistiche, ma anche sociali ed antropologiche con l'Andalusia del primo '900. Su questa traduzione, con la collaborazione di Fois, Serena Sinigaglia ha costruito la drammaturgia, utilizzando un minimo di mediazione linguistica in quell'italiano orale, asciutto, con cui si esprimono i sardi quando parlano "in lingua". In tal modo lo spettacolo riesce a comunicare compiutamente le passioni feroci, l'evolversi fatale della vicenda, che si sviluppa secondo meccanismi così simili a quelli della tragedia greca e, come in quella, in un registro espressivo mai sopra le righe.
I giovani dell'Atir (fra gli altri, gli ottimi Mattia Fabris e Sandra Zoccolan) sembrano adattarsi senza sforzo ad una lingua non loro, accomunandosi con naturalezza ai sorprendenti attori del Teatro Stabile della Sardegna (da citare almeno la Madre di Lia Careddu), in una scenografia essenziale, che li vede quasi sempre tutti in scena, e che trascorre senza scarti dal realismo contadino dell'inizio all'astratta rarefazione estetica del duello finale.
Fra le molte felici invenzioni registiche e drammaturgiche, la più ardita e fascinosa riguarda due enigmatici personaggi coro: la luna e la morte che, come recita il testo di Lorca, compare "come mendicante". Serena li riunisce in un'unica, inquietante figura androgina (l'attore, danzatore e vocalista Sacs Nicosia): un beffardo, sensuale demone che, percorrendo il proscenio, di volta in volta modula e riversa sul pubblico le immaginifiche, surreali forme poetiche di Lorca, incastonate in un malizioso impasto linguistico di francese, italiano, inglese, spagnolo, gaelico.
Claudio Fachinelli