Con Nello Mascia, Benedetta Buccellato, Roberto Giordano, Sergio Basile, Danila Stalteri, Gino Monteleone, Franco Scaldati, Andrea Vellotti, Fiorenza Brogi, Aurora Falcone, Domenico Bravo, Massimo D'Anna
Regia di Nello Mascia
Scene e costumi di Pietro Cartiglio
Roma Teatro Eliseo dal 29 novembre al 18 dicembre 2011 (e successiva tournèe)
Del resto, l'eredità di Eduardo (in termini quantitativi, di copioni accessibili a qualsiasi compagnia di buon livello) annovera ottimi esempi di accostamento, ricognizione, rilettura "con occhio diverso", quasi sempre miranti a superare la dimensione volutamente umbratile, naturalista, (genericamente) umanitaria e buonista dei "calchi" televisivi cui si affida la memoria storica del repertorio originale.
Così, mentre per Francesco Rosi, "Napoli milionaria" era una sorta di sontuosa discarica della coscienza civile, figurativamente affine all'iconografia del Piranesi, per Toni Servillo (e la sorgiva compagnia dei Teatri Uniti) "Sabato domenica lunedì" ristagnava nel pinteriano imbarazzo della drammaturgia dell'equivoco, del "non detto", dell'istituzione familiare che crea dissonanze, angustie, pacificazioni in attesa di peggio.
Anello di congiunzione fra gli opposti estremi resta, ovviamente, il teatro di Luca De Filippo, che dopo "Filumena Maturano" e specie in prossimità de "Le voci di dentro" affonda esegesi ed introspezione delle commedie paterne in quel certo clima di arcana minaccia, di antro della strega che sembra farsi cifra stilistica tutta in divenire.
Ultima, solo in ordine di tempo, è l'intellettiva, intrigante "chiave di regia" con cui Nello Mascia (per il Teatro Biondo di Palermo) torna a "Natale in casa Cupiello" dove ebbe a svezzarsi negli anni del suo apprendistato, proprio accanto a Eduardo, come del resto ambivano tutti i maggiori interpreti della scena napoletana, non folkloristica, nati nel primo dopoguerra.
Di quale scelta o scommessa si tratta? Quella di accostare Eduardo alla desolata genialità di Samuel Beckett, alla sua visione irreparabile e ripetitiva di uomini, cose e sentimenti: ovvero nevrotizzanti tormentoni che girano tra le orbite della logorrea e dell'inanità. La nostra sensazione è che, essendo elastica come una grande calzamaglia, la drammaturgia di Eduardo possa "sopportare" qualsiasi prova di sforzo, slittamento, viraggio verso l'infinito o l'indefinito. Proprio in barba a chi riteneva cotto e decotto "quel certo repertorio" al di là della presenza catartica del suo creatore. Sicchè, l'atmosfera stralunata dell'ambientazione e delle cadenze recitative, il gusto per la metafora che qui corrisponde ad una mefitica (e anche un pò metafisica) claustralità della convivenza coatta (che "genera mostriciattoli") hanno adeguato riscontro nelle ispirate spartizioni da "teatro dell'assurdo" con cui Pietro Cartiglio da impaginazione a tutto ciò che ruota attorno al fatidico pranzo natalizio. Sfociante in dramma della gelosia e della "ottusità" del cagionevole pater-familias, colposamente ignaro e puerile- nella sua ritmica ossessione dei preparativi al presepe.
In due ambienti di vaga astrazione espressiva (l'esatto contrario del miniaturismo eduardiano), quasi disadorni e oppressi da uno sghembo muro -che fa pensare alla ghigliottina o alla spada di Damocle- si consuma il "tormentone" di una festività coatta che, giunti al terzo atto, rende più livido ed acuminato il suo spettro d'osservazione, in una Napoli disgregata e mariuola dove il figlio ruba allo zio, lo zio ruba al fratello e la madre "manto di carità" va fuori di senno come la moglie dissennata del "Berretto a sonagli".
Salvo rientrare in sé quando Lucariello, il coniuge infingardo, si appresterà a crepare e lasciarle lo "scettro del comando": misero paraocchi che gli impedisce di distinguere tra verità e illusione, come di sovente accade agli "uomini di paglia" dell'emisfero eduardiano, in cui ci si rispecchia con commiserevole empatia.
Angelo Pizzuto