di Eugène Ionesco
traduzione: Edoardo Sanguineti
scene e costumi: Maurizio Balò
regia: Pietro Carriglio
con Nello Mascia, Raffaella Azim, Sergio Basile, Fiorenza Brogi, Aldo Ralli, Alvia Reale
Palermo, Teatro Bellini, fino al 4 febbraio 2007
Roma, Teatro Eliseo fino al 6 aprile 2008
Milano, Teatro Studio, fino al 25 maggio 2008
Nel 1962 Ionesco scelse con «Il re muore» di parlare della morte, e quindi dell' eticità della vita, utilizzando la chiave dell' umorismo e del grottesco. Un testo che nella messinscena di Pietro Carriglio, con la bella traduzione di Edoardo Sanguineti, svela tutta la sua complessità. Un bellissimo spettacolo, inquietante e saggio, nel quale Ionesco incontra Beckett per mettere a nudo quel territorio dell' anima dove l' uomo vive il rapporto tra la fatalità del suo destino e la responsabilità di capirlo. In una grigia sala del trono, la scena è di Maurizio Balò, a Bérenger I viene dato l' annuncio della sua morte che avverrà esattamente alla fine della pièce. La prima moglie Marguerite, interpretata dalla bravissima Alvia Reale, cerca di insegnare al suo re il distacco dalle cose, unico concreto conforto che può offrirgli. Marguerite è la Ragione che predica il distacco, estremo soccorso e viatico verso l' abisso del nulla. Dialetticamente opposta è la seconda moglie Marie, la brava Elena Ghiaurov, che circonda il re d' affetto e lo spinge a ricordare le gioie passate impantanandolo nel fango della realtà. Bravi Fiorenza Brogi, Aldo Ralli, Sergio Basile. Straordinaria l' interpretazione di Nello Mascia, un piccolo uomo infantile di fronte al giorno della grande solitudine, che diventa un re nell' istante in cui conosce e accetta la sua verità, sia essa di fede o di ragione. Al Teatro Studio, fino a domenica 25 maggio
Magda Poli
Ionesco e il suo "Re"
Un bel cast (Alvia Reale, Sergio Basile, Fiorenza Brogi, Eva Drammis, Aldo Ralli) con punte di vera poesia nel protagonista, Nello Mascia. Un testo difficile, ma, se compreso, infallibile: Il re muore di Eugène Ionesco (1962). Scene unghiute e metaforiche (una fintogotica sala del trono ricamata di ragnatele, di Maurizio Balò) che ben servono la regia. E il disegno di un metteur-en-scène, Pietro Carriglio (Teatro Biondo Stabile di Palermo) che non esita a gettare fra le braccia della morte, così come meritano, il teatro e la società in cui Tespi ancora sopravvive, sia pure sommersi da cumuli di immondizia, alla Beckett maniera.
C'è profondo disprezzo, in Carriglio, per la corruzione della materia umana che Ionesco incarna nel Re prima "avvisato" e quindi certo di dover morire. Così Mascia, tronfio sovrano del mondo, si piega presto verso il patteggiamento erotico-affettivo con la vita, con le sue manifestazioni anche minime, con il desiderio di una pulizia domestica, interiore ed esteriore, non più ottenibile nella Waste Land di cassonetti sozzi in cui le persone sono costrette a vivere. Infine, la gran Recita: si può, al limite, in un estremo sussulto di orgoglio, interpretare la negazione del male, della malattia, del pattume. Ci si può ritrovare, sulla scena, in un ruolo recitabile, fin sull'oscura soglia. Ci si può, da artisti, eventualmente riscattare. Sempre che a qualcuno (a noi in primis) il riscatto importi. Eppure sì, il Re dell'Epilogo, attonito e orgoglioso mentre la sua Regina balla in proscenio una danza orgiastica che sa di Salome, par proprio una lama contro il nichilismo. All'Eliseo fino al 6 aprile.
Rita Sala
Nel Re di Ionesco la morte del teatro
Da Palermo
Doverosa questa rinnovata memoria dell'autore parallelo e antitetico a Brecht, cioè Ionesco, folgorante inventore di favole allusive e deridenti. Memoria omaggio che arriva dallo Stabile di Palermo tramite Pietro Carriglio che, sulla ribalta del Bellini, recupera e rilancia in una rilettura (e in una nuova, lucida traduzione di Edoardo Sanguineti) che amplia i suoi significati, quella sua straordinaria pièce che è Il Re muore. Lavoro, per taluni capolavoro, che non si allinea con le più famose tipizzazioni del "teatro dell'assurdo" a cui siamo orientati ad associare automaticamente il nome dell'autore franco-romeno.
Opera, Le Roi se meurt, piuttosto da vedere come una sorta di tragedia esistenziale, soltanto se il termine Re fosse letto come «l'uomo muore». E infatti il nome del Re è Bérenger, personaggio che torna più volte nella sua opera. È insomma un «uomo qualunque», che qui è Re. Ma di quale regno? Il suo impero si sta sbriciolando ed è ridotto al lumicino. Tutti ne fuggono. Gli rimangono nella sua striminzita corte, e lo accompagnano nel congedo, le due regine, l'arcigna Marguerite e l'appassionata Marie, più una cameriera, una guardia e il medico-boia.
Il Re è allo stremo e tuttavia continua ad agitarsi, dando ordini che nessuno esegue. Il mondo insieme a lui va a pezzi e il regno risuona dei segni premonitori della sua imminente fine, anche se egli sembra inconsapevole e impreparato a questo destino inevitabile. Progressivamente, i vari sintomi iniziano a paralizzare questo protagonista irresponsabile infliggendogli un'agonia comica e grottesca.
È un personaggio emblematico quello di Bérenger, il quale cerca disperatamente di sfuggire alla morte abbarbicandosi al trono. Tutta l'azione sembra qui volta in una sorta di sogno noir, in cui Ionesco legge metaforicamente il problema dell'uomo d'oggi, immerso in un tempo devastato da crisi profonde. Metafora che trova il suo giusto risalto nella robusta e al tempo stesso sobria regia, lontana da troppo facili clownerie, di Carriglio. Il quale, nella decadente parabola di un Re che potrebbe anche essere un attore che recita la sua ultima parte, lascia intravedere il triste destino cui va incontro l'attuale teatro, a una sua prossima fine se un potere illuminato non interverrà.
Prigioniero altresì nella giustamente angusta scena di Maurizio Balò, una sorta di caverna triangolare ghiacciata e verdognola, si agita Nello Mascia, che ci dà un Bérenger d'allucinante folgorazione nello straziante rifiuto iniziale, fino alla rassegnazione e alla spoliazione terminale. Un piccolo Re Franceschiello che suscita tutta la nostra compassione. Più che convincente la regina Marguerite di Alvia Reale, disegnata con bel segno secco e aspro. Efficace anche Elena Ghiaurhov quale affettuosa regina Marie.
Domenico Rigotti
Nella vasta produzione di Eugène Ionesco, Il re muore occupa una posizione particolare. Perché stavolta il padre dell’Assurdo a teatro non immerge le stolide figurine degli odiati componenti del mondo borghese nella fucina esiziale di quelle battute sulfuree e irriverenti che hanno segnato un’epoca. Trasformando il prototipo dell’uomo comune, più conformista che arrivista, nella caricatura di un monarca di princisbecco, responsabile del dissesto geologico del pianeta, Ionesco eleva le tirate di quel pupazzo di Bérenger, pronto a qualsiasi compromesso pur di salvaguardare i suoi smodati appetiti, a un interrogativo cosmico sul senso dell'avventura terrena. Inaugurando, dopo la comparsa del Rinoceronte che tutto travolge col suo passo, la sua ultima maniera che coincide con la visione disperata dell’inattendibilità del genere umano a pretendersi signore del mondo.
Pietro Carriglio, l’unico in Italia ad assumersi il compito di reinventare i testi canonici dell’avanguardia del Novecento infondendo loro quella luce tra profetica e allucinata che ebbero al loro apparire, ha concepito l’appassionata rilettura del Re muore come un oratorio profano. Che forma con l’oratorio sacro del suo Assassinio nella cattedrale un dittico violentemente virato sull’impossibilità a cambiare l'universo che ci circonda: Thomas Beckett per l’assoluto fideismo nel trascendente e Bérenger, tirannello da strapazzo, per l’assoluta incoscienza tipica della futura società del welfare. Ma il regista, oltre a questa brillante intuizione da ermeneuta del teatro, fa anche qualcosa di più e di diverso.
Collegando l’antica scena disadorna di un Finale di partita che, nella sua messinscena, abbiamo ammirato tempo fa al décor oggi immaginato da Maurizio Balò per il dramma senza sbocchi di Ionesco, Carriglio procede a un’altra sconvolgente operazione. Insieme di natura pittorica e fantastica. Dato che, mentre Hamm e Clov si agitavano spauriti tra i detriti, sul palco, di una sedicente galleria d’arte segnata da un omaggio a Paul Klee, oggi l’inquietante e nevrotico Nello Mascia, dilaniato dalle due regine che se lo contendono, invano si dibatte dentro una reggia-ragnatela che si affaccia a un golfo mistico ingombro dei miraggi di un’umanità in liquidazione. Gli oggetti spaiati della civiltà dei consumi come nel bric-a-brac del Cimitero delle macchine di Arrabal circondano, precario impiantito d’orrore, le sinistre evoluzioni dell’altera e prepotente Alvia Reale e della lunare e romantica Elena Ghiaurov, le due regine di questa saga terminale a cui Fiorenza Brogi e Aldo Ralli fanno da simbolica e sinistra guardia d’onore.
Enrico Groppali