di William Shakespeare
traduzione Alessandro Serpieri
regia, scene e costumi Pietro Carriglio
musiche Matteo D’Amico
luci Gigi Saccomandi
con Luca Lazzareschi, Nello Mascia, Galatea Ranzi, Luciano Roman e Franco Barbero, Sergio Basile, Eva Drammis, Paolo Musio, Simone Toni
Teatro Strehler, Milano dal 24 febbraio al 8 marzo 2009
«“Amleto” è una lesione all’interno di un secolo che si apre con la certezza dell’Utopia, una lesione che accompagna l’uomo moderno». Così Pietro Carriglio, regista dell’allestimento di quel testo capitale che il Teatro Biondo presenta all’Eliseo. E si tratta, concisa e precisa com’è, di una delle più acute ed esaustive definizioni dell’«Amleto» che io conosca. La collocherei, per riassumere, fra Gabriele Baldini e Ingmar Bergman. Secondo colui che resta il nostro maggior anglista, nel capolavoro in questione Shakespeare non ha fatto altro che adombrare, appunto, il «fallimento dell’uomo moderno», limitandosi a «descrivere e catalogare i frantumi a cui si è ridotto» quell’uomo. E dal canto suo il maestro svedese definì l’opera eponima del Bardo come «il dramma dei drammi»: una locuzione che - derivando il termine «dramma» dal verbo greco «drào», ovvero «agire» - significa l’azione al quadrato o, se più vi piace, l’azione in sé e addirittura l’azione per l’azione. Ma, lo sappiamo, il massimo dell’azione coincide inevitabilmente con l’annullarsi della stessa. Ebbene, a tutto questo si collega lo spettacolo diretto da Carriglio, e sul filo di un’icasticità che trova nella pregnanza delle immagini una preziosa verifica e un’arma infallibile. Non a caso, del resto, Carriglio firma anche la scena (fondata su una grande pedana basculante) e i costumi (ispirati a fogge variegatissime, persino russe e giapponesi): si poteva sintetizzare meglio il discorso sulla crisi del principe danese, caratterizzata dall’instabilità psico-ideologica, e sul poetico assurgere di quella crisi a cifra simbolica dell’intera età contemporanea? L’allestimento tocca poi l’acme quando Amleto dice il suo fatidico «essere o non essere» tenendo in mano una corda che si perde dietro le quinte: è la visualizzazione del tentativo disperato di estrarre un senso dall’insignificanza universale; e allorché, in perfetta coincidenza con la fine del celeberrimo monologo, la corda schizza dalla mano di Amleto e torna nel buio dietro le quinte (allorché, in altri termini, cessano la finzione e la consolazione del Teatro), abbiamo, ovviamente, la visualizzazione del fallimento di quel tentativo. Davvero bello e intelligente. Semmai, qualche limite lo spettacolo lo trova nella prova offerta dagli interpreti, non sempre adeguata a un simile impianto concettuale. A tratti un po’ troppo sopra le righe e un po’ troppo esagitato, per esempio, appaiono, rispettivamente, i pur bravi Galatea Ranzi (Gertrude) e Luca Lazzareschi (Amleto). Accanto a loro uno strepitoso Nello Mascia (nella foto, con Lazzareschi), che fa di Polonio un autentico prototipo dei servi sciocchi e supponenti. Enrico Fiore Impossibile condensare l’Amleto di Pietro Carriglio in poche righe. Si tratta di uno spettacolo puro e, insieme, estremamente composito, che il regista e scenografo palermitano ambienta in una Danimarca senza tempo, ancestrale, barbarica, eppure madre di astrazioni novecentesche. Gli attori agiscono su una pedana mobile centrale che richiama sia il rettangolo ligneo elisabettiano sia i coscienti sconquassi della ragione di Amleto. Il fondale, che trascolora dal nero al crema fino a farsi giallo come i fiori del buftalmo, è attraversato da linee scure che inquadrano il colore, come nelle opere di Mondrian. Due ali di quinte nere fanno il resto, fino a richiamare la geometria e i rigori dello storico Amleto di Gordon Craig. Per contrasto le figure umane, quasi smisurate nei costumi (dello stesso Carriglio) che parlano di tundre e steppe, ma anche di certo Oriente combaciante con la Creta minoica (le nudità femminili e le acconciature del prologo, durante l’orgia domestica della regina Gertrude e di re Claudio), creano sulla pedana masse morbide e cangianti, che vibrano al minimo suono della parola shakespeariana, qui tradotta da Alessandro Serpieri. Luca Lazzareschi (Amleto) si concede un’interpretazione sempre a cavallo fra accademia ed estrema sobrietà, alla Gérard Desarthe nell’Hamlet di Chéreau. Galatea Ranzi (Gertrude) si avvinghia al ruolo della madre colpevole e lo spolpa. Luciano Roman (Claudio) è potente: un virile assassino incapace di tremare. Nello Mascia (Polonio) sa spolverare la sua parte di humour e di straniato ossequio. Eva Drammis è buona Ofelia. E Franco Barbero, Lorenzo Bartoli, Sergio Basile, Domenico Bravo, Aurora Falcone, Maurilio Giaffreda, Marco Lorenzi, Luigi Mezzanotte, Paolo Musio, Francesco Prestigiacomo, Jennifer Schittino, Simone Toni, Oreste Valente. Ell’Eliseo al 5 aprile. Rita Sala Nel buio trafitto da lampi di luce, disegnato da colori a comporre quadri di astratto nitore, Amleto, nella raffinata messinscena di Pietro Carriglio, è un uomo martoriato e stretto tra l' amore per la madre cui è legato da un cordone ombelicale che solo la travagliata consapevolezza di sé potrà recidere, tra i dubbi sulla fede nei fantasmi e nel codice della vendetta, tra il senso di ripugnanza per una società ipocrita, tra il dovere di «agire» pur provando nausea per il fare perché consapevole che la sua azione non muterà nulla nell' essenza eterna delle cose. Amleto di Shakespeare è un umanissimo groviglio di contraddizioni, è un rappresentante della morte nei confini del tempo, è un personaggio che trascende il dramma, e la regia, poggiandosi sulla bellissima traduzione di Alessandro Serpieri, scegliendo la strada di poco concedere ai tagli, ben riesce a far cogliere l' atemporalità, la percezione di vicinanza del capolavoro, malgrado i fraintendimenti obbligati della nostra archeologia della percezione che ci rimanda a secoli di facili semplificazioni. Le false piste sono numerose nei mari dell' interpretazione del principe, ma in questa lettura registica le «question» rimangono, come devono essere, aperte e Amleto si mostra per quello che è: un teatro del mondo. Su un piano inclinato ora verso l' abisso, ora verso il cielo, Amleto, il bravissimo Luca Lazzareschi in bilico tra certezza e incertezza, impeti giovanili e maturità, malinconia e brillante scherno, vive la sua tragedia in una corte dai costumi orientaleggianti tra esponenti di un potere arrogante e retorico come il tronfio Claudio di Sergio Roman e il servile Polonio di Nello Mascia. Più complesse le figure femminili, l' Ofelia fresca e straziata nella pazzia della brava Eva Drammis e Gertrude che Galatea Ranzi ben disegna forte nella sua fragilità. Magda Poli
Mascia, Amleto e la crisi dell’uomo contemporaneo
Amleto, l'uomo integrale
Un uomo stretto tra amore, dubbi, dovere