di Angela Demattè, Fabrizio Sinisi
dramaturg Simona Gonella
regia Andrea De Rosa, Carmelo Rifici
con Luca Lazzareschi, Milvia Marigliano
e con (in ordine alfabetico) Catherine Bertoni de Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi, Isacco Venturini
scene Daniele Spanò
costumi Margherita Baldoni
progetto sonoro GUP Alcaro
disegno luci Pasquale Mari
assistenti alla regia Ugo Fiore, Marcello Manzella
assistente alla drammaturgia Marzio Gandola
produzione LAC Lugano Arte e Cultura / TPE – Teatro Piemonte Europa / Emilia Romagna Teatro ERT – Teatro Nazionale | in collaborazione con Associazione Santacristina Centro Teatrale
Palermo, Teatro Biondo dal 30 gennaio al 4 Febbraio 2024
Processo Galileo in scena al Teatro Biondo di Palermo per la regia di Andrea De Rosa e Carmelo Rifici è uno spettacolo il cui titolo già contiene la complessità che poi sviluppa poiché il termine "processo" è da intendersi in senso giuridico riferito al processo al quale il celebre scienziato Galileo Galilei dovette sottoporsi nel 1633 onde abiurare per aver salva quella pelle che Giordano Bruno ebbe invece arsa in Campo Dé Fiori e al contempo rimanda anche al processo inteso come successione di fatti e fenomeni, organicamente legati tra loro, che determinano e costituiscono un fenomeno naturale o storico e che nel termine inglese “trial” assume la doppia valenza sia di processo giuridico che di esperimento. Una perfetta macchina drammaturgica firmata da Angela Dematté e Fabrizio Sinisi e Simomna Gonella come dramturg, mette in moto una struttura multifocale che muove ingranaggi dialogici collocati in tre punti spazio-temporali che serve perfettamente ad incrociare diversi punti di vista sulla scienza e a far emergere una moltitudine di temi trasversali sotto il cielo stellato che li riunisce ad un certo punto in un elencazione degli astri, uno per uno, nome per nome che è uno dei momenti poetici più toccanti dello spettacolo. Al centro della narrazione non è propriamente il processo tribunalizio a Galileo, interpretato con asciutta efficacia da Luca Lazzareschi, bensì l’enorme processo storico che attraverso le sue osservazioni e il metodo sperimentale da lui messo a punto ha prodotto una nuova visione del mondo e dell’uomo che arriva fino all’era tecnologica nella quale siamo immersi e nel cambio di paradigma che il nostro tempo specularmente attraversa. “La macchina era già lì nell’arco, nella freccia” dice Galileo che è il perno di questa narrazione reticolare e vestito di un classico loden verde snoda riflessioni, voci, obiezioni che gli arrivano dai vari personaggi vestiti con costumi appartenenti a epoche diverse e che gravitano nello spazio scenico rappresentando le varie opinioni sulla scienza e le sue fasi storiche. Si raccorda fluidamente il tempo di Galileo processato dalla Chiesa e dalle insidie del potere che si sentiva minacciato dal superamento dei cieli aristotelici a favore di un nuovo ordine dove l’Uomo non è più al centro, con il tempo attuale di una giovane donna di oggi (Catherine Bertoni de Laet) che accompagna i suoi pensieri con una pianola facendo eco ai suoi interrogativi sul presente e alle funzioni della scienza mentre elabora il lutto della perdita della madre con la quale dialoga. Questa madre è una vitalissima e scoppiettante Milvia Marigliano che è la voce della terra, il tempo dell’orto e della crescita dei fagiolini, una semplicità perduta e raccorda il pensiero della figlia con quello di Galileo con il quale s’interfaccia direttamente. Nel suo abito senza tempo color corallo lei è un filo rosso che cuce diverse temporalità storiche. Interessante la funzione di quello che chiamerei il “detrattore” cioè un personaggio, che nel corpo di Isacco Venturini con ritmo incessante cade rumorosamente e si rialza dando voce alle tante visioni antiscientifiche che si sono fatte sentire nel tempo a cominciare dalla rivoluzione dei luddisti inglesi che nella prima metà dell’Ottocento distrussero la prima generazione di telai meccanici e in ogni tonfo è il processo di conoscenza che vince nel suo essere inarrestabile. Da quei cieli aristotelici che vengono sovvertiti dall’osservazione galileiana attraverso lo strumento del cannocchiale (che non fu però inventato da lui come illustra lo spettacolo ma inventato in Olanda e da Galileo fu solo perfezionato nell’uso delle lenti e duplicando le sue funzioni incominciando ad usarlo anche al contrario come un primo microscopio) deriva una perdita dell’innocenza, dell’illusione e la necessità di uno sguardo nuovo sulle nuvole alle quali è meglio sparare un razzo per scongiurare la grandine che inviare una preghiera, e la perdita della magia della notte del Santo e quella pianola a cui Galileo apre il coperchio svelando il suo scheletro di martelletti che battono le corde, la nuda verità fisica di quella stessa musica che però può elevare il nostro spirito. “Tutto è luce” ripete Galileo rassicurando che dove sembra esserci una perdita il guadagno è in luce e consapevolezza, verità delle leggi matematiche immutabili, verità che muove l’universo e che continuerà a muoverlo nonostante la sua abiura che resta un gesto contingente ai tempi storici in cui accadde ma che non potè scalfire la forza rivoluzionaria del suo lavoro che ha cambiato il mondo e nel potentissimo monologo finale, incessante come un sasso che cadendo dalla montagna via via cresce e si fa valanga svela tutto ciò che è derivato da quella rivoluzione dell’occhio e del pensiero. Uno spettacolo necessario e sapientemente calibrato nel testo e nella regia frutto di una collaborazione ampia e corale sia nella produzione che nella realizzazione. Valeria Patera