di John Ford
Regia Luca De Fusco
Con Gaia Aprea, Anita Bartolucci, Giovanna Di Rauso, Piergiorgio Fasolo, Max Malatesta, Stefano Scandaletti, Paolo Serra, Enzo Turrin
Produzione Teatro Stabile del Veneto/Teatro Biondo Stabile di Palermo/Fondazione Teatro Stabile di Verona 2009
Dramma fosco, intriso di nefandezze e cospirazioni, Peccato che sia una sgualdrina di Jhon Ford (1585 - 1639) – in scena al teatro Biondo fino a Domenica – si fonda su una delle colpe considerate più terribili della società di ogni tempo, l’incesto. Il cui solo nome evoca un’immediata repulsione, ma di cui sono colmi il Libro dei libri, le mitologie, tragedie di autori come Sofocle, Euripide, Seneca, riti delle comunità arcaiche, sino alle cronache dei nostri giorni.
Nel testo di Ford, autore che si fa convenzionalmente appartenere al teatro elisabettiano – nel cui alveo crebbe Shakespeare e celebre per i suoi contenuti fiammeggianti di passioni eccessive e di delitti – l’incesto ha, però, accanto alla sua connotazione esecrabile, la nobiltà del grande amore, fatto di inarrestabile sessualità e di dolcissimo trasporto. Anzi, tutto si svolge su un binario: tanto nera è la colpa che cade su Giovanni e Annabella, fratello e sorella (che rimane pure incinta), quanto splendido è il loro sentimento fatale. Di più: per Giovanni, esso non è nemmeno una colpa, un crimine contro natura, ma una necessità da appagare naturalmente. E se per Annabella il percorso è tipicamente femminile – riluttanza prima e abbandono poi – ma con un drammatico pentimento finale, per Giovanni il rapporto con la sorella diventa una sfida alle norme, ai divieti, alla religione, come un grido belluino di affermazione di sé e del proprio destino, negazione di Dio senza possibilità di redenzione, fino alla definitiva perdizione.
Testo che, pur gonfio di enfasi drammaturgia, possiede un vigore poetico non comune ed un’impressionante tensione romantica.
Sul senso di morte che incombe sul fallimento di un’epoca, punta la regia di Luca De Fusco (autore anche dell’adattamento) in uno spettacolo ben curato e ben accolto dal pubblico – prodotto dal Teatro Stabile del Veneto, dagli Stabili di Palermo e Verona – ma piuttosto freddo nonostante il fuoco dell’argomento, che non brilla per originalità e non restituisce adeguatamente emozioni. Spettacolo che, se alleggerisce il tema principale delle vicende di contorno, non trascura di disegnare i personaggi, che hanno, tutti, vizi e mostruosità da farsi perdonare: dall’egoista Florio, padre accentratore dei due giovani, al violento Soranzo, che, dopo aver sposato Annabella, la perseguita appena sa che aspetta un bambino; dall’ambiguo e calcolatore Ricciardetto, che vuol vendicarsi della passata tresca fra sua moglie Ippolita e Soranzo, alla stessa lasciva Ippolita, in credito per essere stata abbandonata da Soranzo e che, per questo, non esita a lusingare il suo servo Vasquez; per finire a quest’ultimo cinico e doppiogiochista, che condurrà le fila di un’orgia di sangue. Senza parlare della serva infingarda di Annabella e del frate Bonaventura, cui ricorrono i due giovani amanti per avere consiglio e che si dimostra prete imbelle e cieco (non a caso messo dalla regia ad annaspare con un bastone in mano).
In questo covo di miasmi, dove la morale è solo un paravento d’immoralità, l’esclamazione finale del truce cardinale, “d’una giovane così dotata dalla natura umana, chi non direbbe: peccato che fosse una sgualdrina”, suona come un’epigrafe beffarda ad un amore impossibile, chiuso dall’immagine cruenta del cuore di Annabella trafitto dalla lama di Giovanni.
Nella traduzione moderna ed efficace di Enrico Groppali, con le luci tenebrose di Emidio Benezzi, nei costumi secenteschi di Maurizio Millenotti, corredato dalle musiche d’atmosfera (cembalo e piano) di Antonio Di Pofi, emergono Max Malatesta, Gaia Aprea, Alvia Reale e Paolo Serra. Una scenografia estetizzante e simbolica, ma poco fantasiosa (di Antonio Fiorentino), privilegia il doppio specchio moltiplicatore ed ha come pedana una cornice barocca, il cui interno riflette, ma anche nasconde, una nera piscina di fango.
Guido Valdini