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PASSIO LAETITIAE ET FELICITATIS - regia Valter Malosti

Passio Laetitiae et Felicitatis Passio Laetitiae et Felicitatis Regia Valter Malosti

dal romanzo omonimo di Giovanni Testori
con Laura Marinoni
e con Silvia Altrui
uno spettacolo di Valter Malosti
impianto scenico Carmelo Giammello, luci Francesco dell'Elba, suono G.U.P, costumi Federica Genovesi
produzione Teatro di Dioniso, Festival delle Colline Torinesi, Asti Teatro 30, CRUT Torino
Pecetto Torinese, Chiesa dei Battù, dal 10 al 16 giugno 2008
Milano, Teatro i, fino al 18 gennaio 2009

www.Sipario.it, 25 marzo 2009
Corriere della Sera, 13 gennaio 2009
La Stampa, 14 giugno 2008
Corriere della Sera, 31 agosto 2008

Valter Malosti è regista (ma il termine è riduttivo) che ama le sfida e concepisce il teatro come luogo estetico e di pensiero. Se ne è avuta una prova in Venere e Adone di William Shakespeare, se ne ha una conferma con Passio, Laetitiae et Felicitatis da Giovanni Testori. Se con Venere e Adone Malosti si è inventato un teatro neobarocco per dare corpo e immagine alla parola faconda di Shakespeare, il barocchismo e le invenzioni linguistiche di Giovanni Testori trovano in Passio, Laetitiae et Felicitatis una cifra estetica essenziale che si sviluppa in una sacra rappresentazione postmoderna in cui amore e dolore, in cui speranza e ignoranza sono un tutt’uno, grazie alla generosa prova d’attrice di una insuperabile Laura Marinoni. Per affrontare Giovanni Testori Valter Malosti ha attinto dal romanzo Passio, Laetitiae et Felicitatis in cui si racconta l’amore fra due donne: Suor Felicita e un’orfana quasi bambina, Laetitia (Silvia Altrui), amore che sboccia e finisce tragicamente all’interno di un convento. La scena è semplice: tre bare di legno, due delle quali fungono da celle claustrali e la terza è segno della morte del fratello motociclista di suor Felicita, suo primo e incestuoso amore. Domina tutto una croce lignea. In questo spazio sacro si muovono suor Felicita e il racconto della sua fame d’amore, un monologare che ha la forza espressiva e carnale del linguaggio inventato di Giovanni Testori in cui sublime e basso, bestemmia e inno a Dio sono un tutt’uno, parole dolorose di una disperata vitalità, grido d’impotenza verso la croce muta che campeggia in scena. Sesso, morte e religione compongono un monologo fatto di abbracci rubati, di inguini che si sfregano, di piaceri taciuti e soffocati nel silenzio conventuale, silenzio rotto dai tuoni di un temporale che è metafora della tragedia che si sta per compiere e dell’irruenza della passione. E in tutto questo il corpo è lì a fremere, prigioniero di quelle bare/celle conventuali, rifugi e condanna ad un’esistenza beffarda. Dopotutto gli stessi nomi Felicita e Letizia sembrano una beffa del destino sull’infelicità carnale delle due donne. Quella passione di Felicita e Letizia strabocca e infiamma nel senso metaforico e reale del termine con la chiusura di un incendio del convento che libera e uccide le due amanti, fino all’epilogo sereno in un Paradiso che accoglie in sé ogni forma d’amore. L’amor proibito raccontato nel romanzo fiume Passio, Laetitia et Felicitatis trova nella rielaborazione drammaturgia di Valter Malosti una sintesi eccellente che rispecchia con coerenza non didascalica la riflessione teatrale ed estetica che in quegli anni (la metà degli anni Settanta) Giovanni Testori portava avanti nella composizione della trilogia degli Scarrozzanti. Ecco dunque che l’interrogare il pubblico/coro è come dire una costate nel raccontarsi di suor Felicita, il segno teatrale si rintraccia nel gioco in cui canzonette, melodramma e teatro si mischiano per stanare lo spettatore. Ma su tutto e tutti come naturale domina Laura Marinoni che dà respiro e carne alle parole di Testori e sa rendere credibile una favola da feuilleton in cui gli eccessi e certa retorica del cattolicesimo impudico e carnale sfiorano un involontario ridicolo. Laura Marinoni trasforma gli eccessi testoriani in credibili ansimi di donna, è un corpo che parla degnamente affiancata da Silvia Altrui, ragazzina di un’adolescenza androgina, non semplice presenza fisica ma oggetto e soggetto d’amore, icona della purezza e al tempo stesso della sfacciata tentazione sessuale. Passio, Laetitia et Felicitatis è un esempio intelligente del dialogo possibile fra testo, regista e attore, complice un lavoro di dramaturg che Valter Malosti sa fare con profondità e intelligenza.

Nicola Arrigoni

Dolori limpidi per un cupo Testori

In un' atmosfera ascetica e carnale da cupo rituale religioso e al tempo stesso pagano, sotto un crocefisso incombente, tra ceri e armadi-bara il regista Valter Malosti ambienta il suo spettacolo nato dal romanzo del 1975 di Giovanni Testori «Passio Laetitiae et Felicitatis». Il titolo dell' opera di Testori, in cui romanzo, teatro e poesia si fondono in una sorta di «plurilinguismo totale» che unisce il dialetto alla lingua del Seicento, il colto al popolare, è la parafrasi di un testo della martirologia cristiana. E martire di un' esistenza impastata di dolore e violenza è suora Felicita che trova il senso della vita solo nella «duità», nell' amore per l' altro, prima quello incestuoso per il fratello morto in un incidente di moto, e ora per Letizia, orfana poco più che bambina. Felicita, scoperta una notte dalle consorelle con Letizia, la uccide e si uccide ponendo fine al dolore di una vita senza speranza. Un viaggio tragica rappresentazione di quella via crucis che è l' esistenza. Malosti riesce a cogliere il senso del romanzo testoriano e a restituirlo in uno spettacolo fosco e disperato, in un inferno di solitudine che la brava Laura Marinoni accende di intensità con la sua Felicita in bilico tra rabbia, isteria e pacata innocenza, tra carne e sentimento. Molto brava anche Silvia Altrui, una credibilissima Letizia.

Magda Poli

Quella "Passione" secondo Testori

Valter Malosti è approdato a Giovanni Testori. Confidando nella squisita vocalità di Laura Marinoni, questo attore-regista per il quale nulla è acquisito per sempre ha affrontato Passio laetitiae et felicitatis con il piglio d'un cacciatore prima un po' guascone e poi più guardingo, più controllato, più «in ascolto».

La Passio non è un testo teatrale. È un romanzo che Testori pubblicò nel 1975, cioè negli anni in cui consegnava al teatro la Trilogia degli scarrozzanti e la novità di una lingua così pietrosa e fascinosa, barocchissima, gonfia di latinismi e di dialettalismi lombardi: forse l'evento più significativo del Novecento dopo Gadda. Pur rientrando, nonostante gli inserimenti poetici, nella generica categoria di romanzo, la Passio può essere considerata un «romanzo per voce recitante», tale è la perentorietà e la plasticità del suo linguaggio. La teatralità è lì, visibile da una pagina all'altra, guizzante e Malosti altro non ha fatto che allungare la mano e coglierla. La sua riduzione è rispettosissima e convincente, aderisce al modello senza deviazioni, salvo nel finale, dove appare una pagina che Testori sacrificò nella stesura definitiva.

Ed ecco, compressa nello spazio di un'ora, collocata dallo scenografo Carmelo Giammello fra le mezze rovine della Chiesa dei Battù sulla collina di Pecetto, ecco Passio laetitiae et felicitatis offrirsi al pubblico con la vicenda immorale, blasfema e carnalmente mistica di Felicita, una donna che prende il velo dopo avere avuto un amore incestuoso con il fratello, morto poi in un incidente di moto. Felicita vive in un orfanotrofio. Qui si innamora di una bambina, Letizia, che la contraccambia nel sentimento e nelle effusioni erotiche. Sorprese dalla superiora Felicita e Letizia lasciano la «casa» nello scandalo generale. Nell'ultimo, disperatissimo congiungimento, la suora uccide la bambina e poi si toglie la vita.

L'inferno della solitudine. Il paradiso della «duità». L'amore scoperto attraverso la delusione e i traumi. La scoperta che la dolcezza ultima è in Cristo, l'«attaccapanni» a cui appendere «la giacchetta della mia esistenza». Sono molti e testorianamente ossessivi i motivi di Passio. Nello spettacolo di Malosti ci provengono da una specie di fuori tempo, come se tutto fosse già accaduto e, da quell'ambiente cimiteriale in cui ogni cassapanca e ogni armadio contiene un teschio, Felicita ricorda e rivive.

Parlavamo del cacciatore. All'inizio c'è forse un'esuberanza eccessiva nel racconto della suora. Poi, fortunatamente, arriva il tono giusto, oscillante tra carnalità e sbigottimento, con la Marinoni che officia il suo rito con un'adesione, una visceralità, un trasporto sentimentale che in più di un momento lasciano ammirati. E si dimostra molto convincente anche la sua partner, Silvia Altrui. Nel corpo sembra quasi una bambina, ma quando comincia a recitare ti accorgi che possiede una maturità conchiusamente adulta. Se infine Malosti non avesse voluto lasciare a tutti i costi un segno della propria personalissima teatralità, l'esito sarebbe stato magnifico. Passino i palloncini colorati fatti volare nel finale, ma perché, gli chiediamo, inserire nel mezzo della vicenda le canzoni di Tenco e di Don Backy? Perché cercare di smitizzare una tensione drammatica che la lingua (quella lingua) eleva invece al quadrato?

Osvaldo Guerrieri

Una «Via Crucis» tra carne e sentimento

In una chiesa sconsacrata, sotto un crocefisso incombente, tra ceri accesi e armadi-bara in un' atmosfera ascetica e carnale da cupo rituale religioso e al tempo stesso pagano, il regista Valter Malosti ha ambientato il suo «studio» sul romanzo del 1975 di Giovanni Testori «Passio Laetitiae et Felicitatis», uno spettacolo con Laura Marinoni e Silvia Altrui, nato con la coproduzione dei Festival «Le Colline Torinesi» e «Asti Teatro 30». Il titolo dell' opera di Testori, in cui romanzo, teatro e poesia come scrisse Giovanni Raboni si fondono in un «plurilinguismo totale» che unisce il dialetto alla lingua del seicento, il colto al popolare, è la parafrasi di un testo della martirologia cristiana. E martiri di esistenze impastate di dolore, fatica e violenza sono le due protagoniste, suora Felicita che scopre la vita e l' amore in un' orfanella, Letizia poco più che bambina, dopo aver patito delusioni e sofferenze che si concluderanno in una morte disperata e atroce. Un viaggio doloroso rappresentazione di quella via crucis che è l' esistenza. Felicita scoperta una notte dalle consorelle nella sua cella con Letizia, la uccide e si uccide con un gesto che pone fine al dolore di una vita senza speranza che trovava senso solo nella «duità», nell' amore per l' altro che Felicita aveva trovato anche in quello incestuoso per il fratello morto in un incidente di moto. Malosti riesce a cogliere il senso del romanzo testoriano e a restituirlo in uno spettacolo fosco e disperato, in un inferno di solitudine che la brava Laura Marinoni accende di intensità con la sua Felicita in bilico tra rabbia, isteria e pacata innocenza, tra carne e sentimento. Molto brava anche Silvia Altrui dal fisico acerbo di bambina e dal temperamento solido e maturo. Uno spettacolo ricco di fascinazioni cui però non giova un finale di consolatoria speranza tra ascese di colorati palloncini da luna park.

Magda Poli

Ultima modifica il Martedì, 24 Settembre 2013 17:13

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