(čajka)
drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati
liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Emiliano Austeri
suoni spallarossa
video Alessandro Papa
consulenza letteraria Fausto Malcovati
con (in ordine alfabetico) Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni, Nicola Pannelli,
Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Cristian Zandonella
dramaturg di scena Piera Mungiguerra
aiuto regia Anna Zanetti
assistente volontaria alla regia Eliana Rotella
assistente ai costumi Rossana Gea Cavallo
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Visto al Teatro Studio Melato di Milano il 18 febbraio 2024
E’ nell’andare a piedi verso Corso Garibaldi che avviene l’esperienza. Si vedono persone, quasi folla, sedute ai tavolini dell’aperitivo e lì ti prende un senso di continuità. Le due ragazze che passano con i calici si muovono esattamente come le attrici appena viste, stesse posture, espressioni del volto, vestiti, trucco. I personaggi del “Gabbiano” visti attraverso il filtro dell’happy hour? L’impressione è appiccicosa, a rivedere nella mente la lunga prima parte dello spettacolo dove assistiamo alle schermaglie, alle scaramucce, dei personaggi prigionieri della “campagna”, almeno a giudicare dalla proiezione su schermo di fondo di un lago appena marezzato. Il lago è non solo metafora della bonaccia di cui la vita dei personaggi sembra prigioniera, ma alla fine, scopriremo, lo è anche della definitiva aridità di Kostja, il suo approdare a un deserto dell’anima e dei sentimenti la cui desolazione culmina nel finale colpo di pistola. Il lago è stato prosciugato, scomparso dallo schermo; Kostja è stato prosciugato dalla mancanza d’amore della madre, poi di Nina, poi forse del mondo intero. Come si fa a vivere senza amore? La parola “amore” passa di bocca in bocca, ma rimane parola. Sono desideri di amore frustrato che si muovono per linee di coppia: Nina-Trigorin; Kostja-Madre; Madre-Trigorin; Masa-Kostja; Maestro-Masa; Nina-Kostja. Ne rimangono indenni solo il medico (diversamente dall’originale di Čechov) e lo zio. E sono le due figure mediatrici-consolatrici, che dovrebbero stemperare l’angoscia in cui tutti si muovono. Poi c’è una riflessione sulla funzione della letteratura. C’è già in Čechov (le “nuove forme”) ma qui è integrata da inserti presi da altri scrittori, Foster Wallace per esempio. “Una cucina che emerge per forza di immaginazione dalla scrittura”; la realtà che si trasforma per opera di un atto linguistico; “come battere un pugno sul tavolo”. Ma è illusione che l’arte possa cambiare, se non il mondo, le persone. In realtà lo Scrittore famoso non può nemmeno ambire a cambiare se stesso. Un altro aspetto della tragedia di Treplev sta forse nel sentire che neanche l’arte ti può trasformare. Il testo di Čechov è sminuzzato e interpolato dalla rimasticatura di Ferracchiati in una scrittura scoppiettante, brillante (dove dà il meglio di sé). Scene spostate o in parte riscritte, come a cercare l’emblema che riassuma il cuore della vicenda. L’atto gratuito dell’uccisione del gabbiano qui è ancora più gratuito. Avviene come estraneo a se stesso, fa pensare a quello sparo dello “Straniero” in Camus, in cui si addensa di colpo tutta la vita del protagonista. Ma qui è anche teatralmente fatuo. Kostja entra, punta la pistola, spara, e dal graticcio precipita un gabbiano di stoffa in rispondenza di causa ed effetto immediata, quasi comica. Nella prima parte il ritmo da commedia brillante (niente maniera cechoviana), costretta in una frontalità che la conformazione del Teatro Studio non può reggere a lungo, è tale che le risate sorgono con naturalezza, merito di attori stilisti, orologiai nel ritmo e nell’affiatamento. Poi lo spettacolo si dilata, dilaga in tutto lo spazio, e sul finale svela dietro al fondale una navata dal bianco abbacinante che annienta Nina e Kostja. Ma quali sono le nuove forme di oggi? Čechov ne trovò la chiave, e la sua drammaturgia ha influenzato un secolo di teatro e non solo. Ma qui, ora? Forse sono impossibili. Forse l’unica forma possibile che rispecchi l’anima dei nostri tempi è proprio quella scenica, psicologica, antropologica dell’happy hour. Franco Acquaviva