di Giuseppe Bertolucci
con Marina Confalone
regia di Giuseppe Bertolucci
produzione Prospet
Napoli, Teatro Elicantropo 6 novembre 2016
Uno spettacolo che fa ridere e piangere insieme è uno spettacolo generoso; che non risparmia alcuna emozione. La scena è buia, ma - inconfondibile - già si sente la sua voce. Chi ha amato il teatro di Eduardo (Le Voci di dentro, Quei figuri di tanti anni fa e molte altre), oppure la commedia cinematografica cult Così parlò Bellavista, non può non riconoscere il tono (cigolante come una porta che abbia bisogno di olio) di Marina Confalone.
Un volto simbolo della tradizione teatrale napoletana, lungi dal diventare una maschera vuota: Marina (che già nel nome racchiude la magia e l'impeto della sua città) continua ad emozionare il pubblico offrendo doni di impareggiabile preziosità.
Come il monologo Raccionepeccui, andato in scena in una sola data domenica 6 novembre in apertura di stagione del Teatro Elicantropo. La "casa" del regista Carlo Cerciello, spegnendo 21 candeline di tenacia e resistenza, si è voluta regalare una perla che la Confalone porta in scena da decenni. Scritta e diretta dall'indimenticato Giuseppe Bertolucci.
Così, a celebrare il rito iniziatico del nuovo palinsesto è apparsa la sacerdotessa Marina: in quello spazio raccolto come un tempio, nel cuore del centro storico partenopeo, dove gli spettatori toccando il muro possono sentire la pietra viva sotto il rivestimento di panno.
Raccionepeccui è un dramma concentrato in quarantacinque minuti di monologo: liberato tutto d'un fiato, confessato come in una seduta psichiatrica, gettato con sdegno ma anche con dolcezza in pasto al pubblico. La protagonista è un'emarginata, una donna sola dalla nascita: abbandonata presso le suore, abusata in convento fin da piccola; il testo non risparmia i dettagli dei rapporti sessuali con le monache depravate, ma li porge come fossero una barzelletta sporca, in un linguaggio colorito e dialettale.
Un'ironia amara e disarmante: la donna interpretata dalla Confalone racconta il proprio ingresso nel mondo adulto attraverso un lavoro da insegnante, ma soprattutto una sequela di amori lesbo (sia mere passioni fisiche che grandi legami). Fino all'incontro col principe azzurro: Vito. Il primo uomo dopo una girandola di femmine: la vita in comune, addirittura il matrimonio. La maestrina orfanella della remota provincia non avrebbe osato sperare tanto! Ma Vito nasconde un segreto: a lui non piacciono solo le donne, ma anche i bambini e così costringe sua moglie a presentargli i suoi scolari.
Il racconto si fa atroce; si susseguono episodi di abusi mostruosi. Addirittura peggiori di quelli subiti dalla protagonista quando era piccola. C'è la violenza: il sangue scorre a fiotti. La Confalone dà voce alla solitudine e allo sconforto di chi ha vissuto una vita intera ai margini, crede finalmente di riscattarsi, ma invece precipita in una palude ancora più profonda e puzzolente. Dove perfino la cosa più bella che possa capitare a una donna, ossia la maternità, rischia di sporcarsi e sprofondare.
La protagonista non ha altra via di scampo che la follia. La demenza come scappatoia e cancellazione di tutto: la solitudine del convento e l'assenza di una famiglia; la condizione di omosessuale nella provincia meridionale; infine, l'efferatezza e la morte. Come si può non scoppiare?
Tutto nella magistrale interpretazione della Confalone è smarrimento e nevrosi: i movimenti a scatto; gli slanci improvvisi di rabbia, commozione e riso; il linguaggio grezzo, carico di espressioni improprie e sgrammaticate (film sporcografici e uominisessuali, per esempio). Tuttavia, anche un personaggio devastato può diventare, nella penna di Bertolucci e nella resa di Marina Confalone, un'eroina in grado di far nascere fiori tra le macerie. Immagini poetiche che il pubblico porta via dentro di sé uscendo dal teatro.
Giovanni Luca Montanino