di William Shakespeare, traduzione e adattamento Michele Placido e Marica Gungui
con Michele Placido, Gigi Angelillo, Margherita di Rauso, Federica Vincenti, Francesco Bonomo, Francesco Piscione, Linda Gennai, Giulio Forges Davanzati, Brenno Placido, Enzo Curcurù, Peppe Bisogno, Alesando Parise, Riccardo Morgante
Regia Michele Placido e Francesco Manetti, scene Carmelo Giammello, musiche originali Luca D'Alberto, costumi Daniele Gelsi, disegno luci Giuseppe Filipponio, Ercole Palmieri per Ghione Produzione e Goldenart Production in collaborazione con Estate Teatrale Veronese
Teatro delle Muse, Ancona dal 8 al 11 novembre 2012
La lettura che del Re Lear di Shakespeare fa Michele Placido in questo nuovo allestimento di cui cura regia e traduzione è una critica dell'esistenza umana. Re Lear, dice l'attore e regista pugliese, «esplora l'amore e il dovere, il potere e la perdita, il bene e il male, racconta della fine di un mondo, il crollo di tutte le certezze di un'epoca, lo sgomento dell'essere umano di fronte all'imperscrutabilità delle leggi dell'universo». Ecco l'uomo, viene da dire, riprendendo uno dei nodi centrali della lettura proposta da Placido, citando il celebre passo del Vangelo in cui Ponzio Pilato mostra il corpo di Cristo flagellato: ecco l'uomo nudo e martoriato, spogliato di vestigia e di tutti gli onori. E in questo disegno l'unico a salvarsi, non a caso, è proprio Edgar, il francescano Edgar (interpretato da Francesco Bonomo, migliore in scena), che si spoglia degli averi paterni e che mette in salvo la pelle risalendo dal ventre di quel che resta del potere: macerie, macerie e ancora macerie. C'è tutta una colonna sonora di accompagnamento a questa lettura cristologica: Jeff Buckley è citato in più occasioni con i versi del re confuso e frastornato da Hallelujah e con il Corpus Christi Carol, l'inno in Middle English che accosta la crocefissione di Gesù alle ferite di un re malato. Placido riprende un filone caro alle lettere del 20esimo secolo: questo suo allestimento di Re Lear ci fa ripiombare nella terra desolata arida di sentimenti e secca di amore. Siamo di nuovo malati di modernità. Del resto la storia non fa che ripetersi: sul palcoscenico giganteggia una corona rivestita di miti moderni di potere, da quello politico di Kennedy e della regina Elisabetta a quello mediatico di Marylin. Una corona strutturata come una scala, circolare come la fortuna. Tutto intorno la desolatezza della landa e i simboli del potere mandato in rovina dalla storia: un volto di Lenin prima bendato e poi con le orbite grondanti di sangue, l'aquila imperiale simbolo a un tempo della grandezza e quindi delle efferatezze romane e poi fasciste, altari bombardati e sventrati sotto la benedizione di Dio, dell'ayatollah Khomeini o di Bin Laden. In nome del sacrosanto principio rinascimentale che allo sconvolgimento del macrocosmo deve corrisponderne uno nel microcosmo: alla terra bruma e desolata entro cui si muove Lear e chi come lui vaga cieco o accecato per il mondo, corrisponde la desolazione interiore di chi si serve del potere per i propri fini più intimi, chi per arricchirsi, chi per farsi giustizia da solo, chi per assecondare un capriccio sessuale. La tragedia si conclude con una chiusura epica: "A noi spetta accettare il peso di questo tempo triste; dobbiamo dire quello che sentiamo e non quello che conviene". Vedere, criticare e denunciare: o non ci resta che sopportare le conseguenze di un amore umano, troppo umano. Da vedere.
Silvia Barocci