di Carlo Goldoni
regia Toni Servillo, scene Carlo Sala, costumi Ortensia De Francesco
luci Pasquale Mari, suono Daghi Rondanini, aiuto regia Costanza Boccardi
con (in ordine di apparizione) Andrea Renzi, Francesco Paglino, Rocco Giordano, Eva Cambiale, Salvatore Cantalupo, Toni Servillo, Tommaso Ragno, Paolo Graziosi, Anna Della Rosa, Chiara Baffi, Gigio Morra, Betti Pedrazzi, Giulia Pica, Marco D'Amore, Mariella Lo Sardo
Milano, Teatro Grassi dal 7 novembre al 9 dicembre 2007
Roma, Teatro Valle, dal 26 marzo al 13 aprile 2008
Teatro Ponchielli, Cremona, febbraio 2008
Teatro Vittorio Emanuele, Messina, Marzo 2009
MESSINA (gi.gi.).- Giunge al Vittorio Emanuele carico del prestigioso Premio Ubu, quale migliore spettacolo del 2008, La trilogia della villeggiatura di Goldoni, adattato e messo in scena con grande merito da Toni Servillo, riservando per sé il ruolo di Ferdinando “ lo scroccone”, facendone una gustosa chicca con quel suo modo affettato di pronunciare verbo per farsi meglio accettare da chi gli sta attorno. Spettacolo uno e trino perché summa di tre testi goldoniani sulla villeggiatura ( Le smanie, Le avventure, Il ritorno ) propiziati all’origine in questa sequenza da Strehler e poi da un gruppetto di registi che hanno rispettato questo incedere. Uno spettacolo che amplifica le smanie borghesi al tempo dei lumi del XVIII secolo, quando ieri come oggi le vacanze sono uno status simbol che bisogna onorare anche se le casse sono vuote e i creditori sono lì dietro la porta a pretendere quanto gli è dovuto. In questa trilogia Goldoni sembra anticipare Cechov e sembra di trovarsi quasi in un giardino, non di ciliegi, ma ricco di sole foglie verdi, nella bella scena di Carlo Sala, e non si beve il tè dal samovar, ma si servono tazze di cioccolata e coloro che vi stazionano, agghindati con abiti color panna ( i costumi sono di Ortensia De Francesco ), solo Servillo indossa calzoni e redingote rossi, giocano a carte, sereni all’apparenza, attorno a fragili tavolinetti di legno. Al centro di questo fascinoso spettacolo, con le luci che abbagliano come un sole a mezzogiorno e con Servillo che se ne sta seduto su una sedia con le gambe distese in alto su un tavolino, c’è la Giacinta trepidante di Anna Della Rosa, contesa dai due bellimbusti, Leonardo e Guglielmo (quelli di Andrea Renzi e Tommaso Ragno), che ha il cuore che palpita per il secondo ma accetterà scaltramente di maritarsi col primo perché più danaroso. Fra di loro si agitano i pruriti della Sabina di Betti Pedrazzi per Ferdinando, gli infantilismi del maturo Filippo di Paolo Graziosi che ha il dono di far udire tutte le sue battute in un teatro Vittorio che perde sempre più l’acustica, oltremodo gentile nei confronti della figlia Vittoria (Eva Cambiale) e della mezzana Mariella Lo Sardo e poi il Fulgenzio di Gigio Morra che batte cassa, gli amori di straforo dei servi Paolino e Brigida (Francesco Paglino e Chiara Baffi) e quelli più allegri tra Tognino e Rosina ( Marco D’Amore e Giulia Pica). Calorosi gli applausi finali con repliche al Vittorio sino a domenica pomeriggio e poi dal 25 marzo in scena al Teatro Biondo di Palermo.
Gigi Giacobbe
La Trilogia della Villeggiatura di Goldoni, nella versione registica di Toni Servillo è una sinfonia teatrale ben concertata che appaga l’occhio grazie all’eleganza delle scene e dei costumi di Carlo Sala e di Ortensia De Francesco e all’affiatata e divertita prova interpretativa di un cast di attori che sanno gestire abilmente spazi scenici, battute, pause e ritmo nel rispetto dei dettami della grammatica recitativa. La metafora sinfonica è suggerita dalla conversazione di Toni Servillo con Gianfranco Capitta, riportata nel libretto di sala dello spettacolo prodotto dai Teatri Uniti e dal Piccolo Teatro. Toni Servillo definisce se stesso attore e alla parola regista preferisce il termine ‘maestro concertatore’. È proprio questo ruolo che l’attore napoletano riveste nel concepire l’elegante e funzionale affresco della Trilogia della Villeggiatura, spettacolo che unisce senza soluzione di continuità i tre testi goldoniani, facendo suonare al meglio un cast di attori che sanno il fatto loro, regalando al pubblico uno spettacolo che diverte e fa passare in un baleno le tre ore di racconto. Le smanie della villeggiatura se ne vanno velocissime in poco meno di un’ora e quell’ansia di villeggiare da parte di una società opulenta e che vive sopra le proprie possibilità se ne va via in un rutilante susseguirsi di battute e introduce i personaggi, destinati ad acquisire spessore psicologico nel prosieguo delle Avventure della villeggiatura, fino a giungere al mesto e risolutivo Ritorno. Il centro della Villeggiatura è Giacinta, giovane donna che sa il fatto suo, innamorata di Guglielmo, ma pronta a sposare Leonardo prima per sentirsi indipendente e poi per adeguarsi alle convenzioni borghesi. Giacinta è un’energica e centratissima Anna Della Rosa, la vera sorpresa della Trilogia della Villeggiatura. Intorno a questo personaggio ruota un intero mondo, vacuo con padri un po’ infantili (Paolo Graziosi/Filippo), giovani senza padri e per questo allo sbando dei desideri: Andrea Renzi/Leonardo ed Eva Cambiale/Vittoria, belli e un po’ gigioni come Tommaso Ragno/Guglielmo, vecchie non rassegnate alla loro età come Sabina/Betti Pettenazzi, e scrocconi esilaranti come Ferdinando, interpretato da un compiaciuto Toni Servillo. La Trilogia della Villeggiatura è un piacere per il pubblico, è un piacere per gli attori che la recitano e questo si respirava ieri sera in teatro. La sinfonia scenica di Toni Servillo appaga i sensi, pur sacrificando l’intelletto (la regia critica è altra cosa), ma alla fine poco importa e l’applauso di un teatro partecipe e affettuoso è la degna conclusione di uno spettacolo che piace.
Nicola Arrigoni
nostro contemporaneo
Atmosfere rarefatte, ma umanissime. Sapori di un passato che non è tale; meglio, di un presente sempre presente. Qualche dilatazione, qualche insistenza, come nella vita, quando si resiste ad assopirsi e a scemare. Toni Servillo, per il suo Goldoni (Trilogia della Villeggiatura, al Valle fino al 13 aprile), sceglie di lavorare su tre commedie settecentesche e su un pugno di "giovani in amore" per fissarli in un sempre accomunante, confortevole, eterno. In palcoscenico, la folle euforia che precede le vacanze, resiste durante la villeggiatura e infine, quando scocca l'ora del ritorno, si fa citazione continua e frustrante della Feria, intesa come condizione obbligatoria, come isterica vetrina di figure. Smanie della villeggiatura esaspera il friccicore del fare i bauli e, fantasticando, nulla dimenticare. Avventure della villeggiatura mima la quiete senza midollo dell'estate, riempibile di ciondolìi e golosità, contemplazioni e sonnolenta malizia. Ritorno dalla villeggiatura riappoggia infine i vacanzieri, corrosi dal sole e dall'ozio, sulle consuetudini cittadine, riaccende i doveri, ripristina la trenodia, senza bollicine, del giorno dopo giorno. Grande Goldoni, grande Servillo. Una regia di trame impalpabili, eppure non fuggitiva. Luci che simulano orizzonti lunghissimi. Una tale capacità di comunicare che qualche sforbiciatina nella terza parte risulterebbe innocua e generosa. Ineccepibile il cast: lo stesso Servillo, vieppiù fascinoso, con Andrea Renzi, Eva Cambiale.
Rita Sala
Ma quanti debiti si sono sempre fatti per le villeggiature. Magra consolazione, ma anche divertimento assicurato, godersi la Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni (fino al 9 dicembre al Teatro Grassi di Milano) nell'allestimento di Toni Servillo che, livrea rosa e occhiali da sole, s'è ritagliato con verve il ruolo dello scroccone Ferdinando: controcanto comico a borghesi svampiti (il Filippo di Paolo Graziosi) o pretendenti indebitati, governato dalle leggi dell'interesse e dell'apparire, anche quando sembra obbedire al «marivaudage» dei sentimenti.
Figura centrale è Giacinta (la sensibile Anna Della Rosa): rinunciando all'algido Guglielmo per sposare l'avido e geloso Leonardo, mette insieme orgoglio e pregiudizio, rivendicando come scelta la sottomissione agli idoli della tribù. In tre ore e un quarto a ritmo di «far presto», il finale ha il tono sospeso e malinconico d'una nota in minore: ogni passione spenta.
Roberto Bartolini
Negli ultimi cinquant'anni del teatro italiano si sono succedute a cicliche scadenze cinque edizioni della Trilogia della villeggiatura. Lo splendido trittico di Goldoni nel quale il nostro grande poeta raffigura, tra ironici distinguo e struggente tenerezza per il mondo borghese fotografato al momento della sua inesorabile caduta nella gabbia del conformismo, il declino del discorso amoroso tutt'uno al progressivo declinare delle fortune economiche di quella classe che s'illudeva di aver sostituito l'aristocrazia. In spettacoli di matrice opposta idealmente accomunati da una rivisitazione critica del settecento veneziano.
A partire dal grande revival di Strehler fino alla virata sul pessimismo nero del suo ex allievo Missiroli fino al grottesco memore di Strindberg di Massimo Castri. A cui due anni or sono ha contrastato con esiti felicissimi la rilettura in chiave contemporanea di Luca De Fusco.
Ora Toni Servillo, dopo aver affrontato Marivaux in salsa napoletana, tenta di applicare la stessa ricetta a questo capolavoro puntando vistosamente le carte su quella che, negli anni, è diventata la sigla vincente del suo singolare manierismo. Esemplificato, come è sua abitudine, in una scena spoglia di orpelli che ricorda il palco brechtiano, in alcune strizzatine d'occhio ai tic contemporanei (Giacinta che, sotto un vistoso cappello di paglia sprofonda in una chaise longue come nello spettacolo di De Fusco) e in una inopportuna predilezione per i corali da «basso» partenopeo.
Particolarmente evidenti questi ultimi nella gran scena finale in casa della ruffiana Costanza dove, allo scioglimento, si ritrovano tutti i protagonisti di questa tristissima commedia con brio giustamente concepita ab origine da Strehler in odor di cechovismo in anticipo sui tempi.
Ne è risultato uno spettacolo di piacevole levità e freschezza, ma niente più, privo di quelle illuminanti indicazioni di poetica che ci si poteva legittimamente aspettare. Forse, anche per colpa di un cast vistosamente eterogeneo dove, ad eccezione di Servillo stesso abilmente assecondato da Graziosi e Ragno, peccano per superficialità e acerbità di mestiere la chiassosa Eva Cambiale e la rigida e impomatata Anna Della Rosa.
Enrico Groppali
Un Goldoni strepitosissimo
Che ogni anno qualcuno allestisca la Trilogia della villeggiatura di Goldoni è irritante. Che in pochi minuti lo spettacolo di Toni Servillo spazzi via la pregiudiziale irritazione è un dato di fatto. I borbottii dei puristi, che vi siano tagli cospicui o che la lingua sia ammorbidita, attualizzata, vengono debellati dall' uso che si fa dei «materiali» in scena. La Trilogia di Servillo, per usare un termine del testo, è strepitosissima. Essa svecchia di colpo il teatro italiano ed è di gran lunga migliore del pur notevole Sabato, domenica e lunedì dello stesso regista. Il suo lavoro è eminentemente stilistico. Voglio dire che è ora alle spalle tutta l' analisi di tipo ermeneutico fatta dalla generazione precedente. Per Servillo il testo ha una sua evidenza, recata dal corpo degli attori nel loro divenire; e questa evidenza, va da sé, si sviluppa lungo l' arco di una comunicatività non già naturalistica, ma di elaborata naturalezza. Si tratta di un lavoro portato ad una tale precisione, in ogni particolare, senza averne l' aria, avendo l' aria opposta di disinvoltura, da strappare l' applauso ogni cambio-scena. È quanto ho constatato avendo avuto la fortuna di assistere ad una replica pomeridiana, con un pubblico di studenti. I processi di identificazione scattavano schietti: la loro esperienza di vita era quella che si vedeva accadere in quel momento, amplificata. Paolo Graziosi, che è lo svagato Filippo, scende le scale, dice buongiorno (cioè una sola parola) e sale l' applauso, meritatissimo. Marco d' Amore, che è Tognino, dice di Sabina (Betti Pedrazzi) «la vecchia», dice cioè la verità che tutti occultano, facendo finta di nulla, e viene giustamente applaudito. In termini di sviluppo delle vicende rappresentate Servillo va al nucleo della storia, raccontata da Goldoni in tre commedie. Il nucleo è rappresentato da una donna divisa tra due uomini. Esso diventa drammatico perché, al postutto, Giacinta per mere ragioni economiche sposerà, come promesso, non come desiderato, il bel Leonardo (Andrea Renzi, un bullo sofferente, applaudito quando appare a torso nudo!). Invece il Guglielmo abbandonato alle attenzioni di Vittoria è un sofferente Tommaso Ragno, cicisbeo d' arte sopraffina. Toni Servillo, che a se stesso ha riservato un personaggio secondario (lo «scrocco» Ferdinando), in una scena spoglia e con una direzione d' orchestra veloce, pone in luce i due temi di fondo. La villeggiatura è la villeggiatura, come ancor oggi ne parliamo: tu, quest' estate, dove vai in vacanza? È cioè un dato di realtà. Ma è anche un simbolo (uno status symbol). Ed è una metafora: è il principio del piacere contrapposto, appunto, al principio di realtà, rappresentato dagli umani sentimenti stretti nella morsa del mondo economico. Essi si possono vedere in due modi. O dal punto di vista di chi ama e soffre (Giacinta - Anna Della Rosa - Leonardo, Guglielmo), che in uno schema arcaico o in uno schema romantico, sono pura e semplice dépense. O dal punto di vista di chi non ama e ragiona (l' ottimo borghese Fulgenzio di Gigio Morra), che accusa tutti di vivere, come noi viviamo - a furia di mutui - al di sopra dei nostri mezzi. Alla fine la Trilogia, in un contesto di moralismo classico, è una commedia sul vizio di scialacquare. Per questo, nel ricordo del sole strehleriano che appare nel secondo tempo, tanto più lancinate è l' abbraccio finale di due vittime di questo vizio, i due esseri costretti ad unire i propri destini.
Franco Cordelli
Chi l'avrebbe mai detto, un Goldoni così divertente. Sarà il ritmo serrato già tenuto dagli attori, che rivela ogni venatura di un testo di implacabile perfezione. Sarà la concentrazione imposta dalle dimensioni della scena, che amplifica ogni gesto. E sono poi quelle del palcoscenico del Piccolo teatro, dove ha debuttato la Trilogia della villeggiatura allestita da Toni Servillo con il respiro del grande teatro. Una semplice parete dipinta di un colore di terra che tira sul giallino, a stringere ancor di più verso il proscenio lo spazio agibile dagli interpreti. Due ingressi laterali. Al centro un'apertura che si apre in due battenti come un libro, a rivelare l'ambiente retrostante, minimale «cambio di scena» a vista che rende immediato il passaggio alternato nelle due case fra cui monta la commedia.
Di fronte al palcoscenico milanese è impossibile non evocare la lontana interpretazione che ne diede Giorgio Strehler, in uno dei suoi spettacoli più celebrati. Quello è evidentemente anche per Servillo un punto di partenza, a cominciare dalla scelta di riunire i tre testi in una sola serata, sottolineandone il disegno unitario. Ma reso il doveroso omaggio al maestro (un fondale che trascolora in malinconici grigiori rosati...), Servillo va per la sua strada, adattando il testo a una più personale visione, recuperando zone meno battute che ne accentuano la dimensione corale. In compagnia se mai di altri maestri. Non è certo un caso quell'eco eduardiana che par di cogliere a tratti, se a stacco fra le tre parti l'artefice introduce il motivo musicale che faceva da sigla alle versioni televisive delle commedie di Eduardo. Così, non sorprende che torni in mente la precedente messinscena di Sabato, domenica e lunedì. Anche qui sono in gioco tre diverse giornate della vita, tre diverse colorazioni sentimentali e emotive. E al centro resta quella stessa paradigmatica famiglia, colta qui nel fervore della nascente borghesia piuttosto che nell'opacità della sua erede napoletana. Le stesse smanie appunto, le stesse incomprensioni, lo stesso impulso a cercare una rottura di cui non si ha il coraggio, lo stesso desolato adattarsi alla realtà - dopo averla creata, quella realtà.
Ecco allora che tutto il gran daffare delle Smanie per la villeggiatura, tutta quella comica infelicità, per un abito o per una donna, si traduce in una quiete da trincea, all'aprirsi della scena di Carlo Sala ad atmosfere cechoviane, fra una terrazza e un boschetto. Come una tregua. Un guardarsi a vista. Un misurare le forze proprie e altrui, mentre intanto si gioca a carte o si beve la cioccolata. Per tornare poi in interno, il medesimo duplice interno dell'inizio, ma in un clima già mutato. Quando della villeggiatura restano i debiti da saldare, anche quelli sentimentali. E anche la comicità si incupisce, diventa più torva e cattiva.
Due mondi sono a confronto, nella Trilogia della villeggiatura. Quello giovanile, smanioso e regolato dalla passione - sicché, come un tormentone, si parte, no non si parte più, a seconda di quel comanda la gelosia. E quello adulto. Tutt'altro che omogeneo, anzi un bel campionario di diversità e persino di bizzarrie, dai tre comandamenti, prudenza giudizio economia, che fanno da bussola all'azione del ragionevole Giglio Morra alla disincantata svagatezza di cui un perfetto Paolo Graziosi ricopre la propria neghittosa indifferenza, fino al delirio amoroso della non più giovane Betti Pedrazzi. E vuol dire anche due diverse generazioni di attori, dove si coniugano abituali compagni di scena dell'artefice (Andrea Renzi, Tommaso Ragno, Salvatore Cantalupo) a un sorprendente gruppo di giovanissimi (fra cui, oltre alla protagonista, bravissima Anna Della Rosa, risaltano Eva Cambiale e Chiara Baffi).
Servillo ha riservato per sé la maschera sulfurea di Ferdinando, scroccone al di sopra di ogni vergogna. O meglio, fa di un personaggio comico una maschera nera che sembra uscire dalle stesse profondità infernali del più antico Pulcinella. Un Felice Sciosciammocca che può permettersi l'eccesso di un abito rosso, consapevolissimo delle contraddizioni del mondo in cui si muove. Dentro cui funge da elemento perturbatore, cioè smascheratore. Che stronzo, commenta forte la ragazzina della fila di dietro, durante una delle scene più crudeli, la sghignazzante lettura in pubblico della lettera scrittagli dall'anziana innamorata. E mostra di aver capito benissimo, per la sua parte, il senso della commedia. La sua crudeltà e amarezza. Il suo pessimismo di fondo. In fondo questo Goldoni non è così divertente.
Gianni Manzella
Milano. Come sappiamo, Strehler fu il primo, nel '54, a riassumere in un solo spettacolo la goldoniana «Trilogia della villeggiatura». Poi - dopo vari allestimenti dei singoli testi in essa compresi (notevole, fra gli altri, quello de «Il ritorno dalla villeggiatura» firmato nel '96 da Massimo Castri) - in occasione del trecentesimo anniversario della nascita di Goldoni è toccato a due napoletani ripetere l'operazione strehleriana. Luca De Fusco ha giocato d'anticipo, proponendo l'anno scorso una sua interessante versione della «Trilogia» che - protagonista un ottimo Lello Arena - ambientava «Le smanie per la villeggiatura» nel Settecento, «Le avventure della villeggiatura» negli anni Sessanta e «Il ritorno dalla villeggiatura» in una pesante atmosfera di estrazione post-esistenzialistica. E adesso è il turno di Toni Servillo, che con la propria rivisitazione del capolavoro in questione - prodotta dal Piccolo e da Teatri Uniti - ha aperto la stagione nella storica sala di via Rovello, oggi intitolata a Paolo Grassi. Ebbene, l'attacco dello spettacolo di Servillo è persino abbagliante. Nella bella scena di Carlo Sala, sulla parete di fondo s'aprono a sinistra e a destra due porte nel cui vano si stagliano, come in una natura morta di Morandi, rispettivamente una cioccolatiera con una tazza e un paio di tovaglie abbandonate su un baule di vimini: sono i reperti simbolici di un'agiatezza più desiderata e inseguita che posseduta e goduta. E, così, la regia mette subito a fuoco, e come meglio non si sarebbe potuto, i temi di fondo della «Trilogia». Queste tre commedie, infatti, sono lo strumento utilizzato da Goldoni per chiamare alla sbarra, nel 1761, quella piccola e «virtuosa» (almeno sotto il profilo dell'accortezza negli affari) borghesia della quale sino ad allora s'era fatto portavoce, e che ormai vedeva prigioniera di una degradazione morale e di una crisi economica di giorno in giorno sempre più accentuate: una degradazione e una crisi di cui è spia, appunto, la voglia smodata di «comparire», d'imitare i nobili e i ricchi nello «spendere e spandere», diremmo a Napoli, per gli ozi estivi in campagna. E, forse, a questo «ripensamento» di Goldoni non fu estraneo nemmeno il fatto che molti di quei borghesi gli avessero voltato le spalle, abbandonandolo nel «suo» Teatro di San Luca per correre a divertirsi con le fiabe di Gozzi al San Samuele. In ogni caso, sarà anche per quest'abbandono che un anno dopo il grande commediografo lascerà per sempre Venezia. Sul piano della scrittura, poi, una tanto feroce volontà di satira si traduce nell'esasperazione del famoso ritmo ternario delle battute goldoniane, qui condotto sino ad esiti pirotecnici (vedi, per fare solo un esempio, la replica di Giacinta a Leonardo sul finale del primo atto delle «Smanie»). È un vero e proprio valzer sul ciglio del vuoto. E Servillo - ecco un'altra idea eccellente - lo rende per mezzo della recitazione ostentatamente accelerata che chiede agli attori. Mentre, in quanto lui stesso attore nei panni di Ferdinando, risulta puramente e semplicemente strepitoso. D'altronde, l'aver scelto per sé proprio quel personaggio è a sua volta un'acuta idea di regia: perché - dedicandogli l'unica nota autografa dell'intera «Trilogia», in cui spiega che l'epiteto di «cavaliere del dente» veniva affibbiato agli scrocconi «per derisione» - Goldoni lo sottolinea, isolandolo dal contesto e, quindi, elevandolo al rango di una sorta di giudice o, per l'appunto, di regista. Assai meno convincente, invece, è la scelta di eliminare, come già fece Castri, il personaggio di Bernardino, l'avarissimo zio di Leonardo: giacché costui - in quanto connotato da un crudele sarcasmo assolutamente raro nel teatro di Goldoni - rappresenta la proverbiale ciliegina su questa torta inacidita. Fra gli altri interpreti citerei innanzitutto Anna Della Rosa (una Giacinta insieme sensuale e calcolatrice, proprio come dev'essere), Andrea Renzi (Leonardo), Paolo Graziosi (Filippo), Tommaso Ragno (Guglielmo), Gigio Morra (Fulgenzio) e Betti Pedrazzi (Sabina). Ma occorrerebbe evitare che la recitazione diventi a tratti troppo «recitata», così come gioverebbe qualche taglio. Lo spettacolo (sarà a Napoli, al Mercadante, dal 12 dicembre al 6 gennaio) dura oltre tre ore. E taluni spettatori, alla seconda recita (quella a cui ho assistito), non le hanno rette.
Enrico Fiore
Al Piccolo un Goldoni elegante e spiritoso
E' passato più di mezzo secolo dal memorabile spettacolo in cui Giorgio Strehler accorpò per la prima volta le tre commedie scritte da Goldoni, la famosa Trilogia della villeggiatura, sulle ambizioni, gelosie e ripicche di un gruppetto di borghesi che vanno a passare l'estate in villa. Ed ecco, proprio nella medesima sede, il Piccolo di via Rovello, cioè il Grassi, e lo stabile milanese anche a coprodurre con Teatri Uniti, la famosa Trilogia ritornare piena di vitalità, ma con accento nuovo e più moderno, per mano di colui che è considerato oggi uno dei nostri più estrosi teatranti: Toni Servillo. Riunendo in un'unica serata le tre commedie (Le smanie, Le avventure e Il ritorno), e sia pur esse sacrificate di molte scene, più chiaramente si avverte quale sia il significato del bellissimo affresco di costume di una borghesia avida di apparire (la villeggiatura vista come mito sociale, come status symbol) che diventa specchio ricco di riflessi, dove ai rituali esasperati si alterna l'assalto dei sentimenti e dove alla superficialità spettacolare e dissipata si alternano i debiti, il dissesto economico, la corsa alle eredità e alle donazioni. Alla fine dopo tanta falsa gioia, sulla festa incombono malinconia e mestizia.
Alza attento lo sguardo Goldoni su questa società che già trattiene molto della nostra. E spiando affonda su di essa i propri stiletti satirici. Che s'intravedono anche in questa rappresentazione di Servillo, franca, spigliata, che muove, soprattutto nella prima parte (la migliore), a ritmo accelerato e al tempo stesso piena di eleganza. Un'eleganza che arriva anche dai costumi (di Ortensia De Pasquale); meno felice la scenografia (di Carlo Sala). La vicenda, pur ridotta, tutta ben esposta e recata spesso al proscenio con abili primi piani di taglio cinematografico. Anche se poi il gioco comico (ci sono punte da vaudeville e c'è un certo colore partenopeo nella recitazione) lascia piuttosto in ombra quel che è il 'realismo critico', e dunque l'amaro come invece aveva fatto e bene Massimo Castri.
Il cast è di notevole livello, anche se fra gli interpreti non tutti sembrano adeguati ai ruoli. Fra di essi a colpire favorevolmente, per la grinta e l'intensitdi pronuncia, Anna Della Rosa che rende bene il turbamento della giovane Giacinta lacerata fra il rispetto della parola data al fidanzato Leonardo (un aitante ed irruente Andrea Renzi) e l'attrazione esercitata su di lei da Guglielmo (un bravissimo Tommaso Ragno, forse il migliore) con la sua malinconia preromantica. Ma spicca per 'verve' anche Chiara Baffi (Brigida) e per pungente grazia Eva Cambiale, ( Vittoria). Più sbiaditi tra i veterani Paolo Graziosi (Filippo) e Gigio Morra (Fulgenzio), mentre lo stesso Toni Servillo si accaparra la simpatia del pubblico schizzando con abile mestiere (e qualche ammiccamento non necessario) la figura di Ferdinando, lo scroccone che mai batte in ritirata.
Domenico Rigotti