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TRE SORELLE - regia Massimo Castri

Tre sorelle Tre sorelle Regia Massimo Castri

di Anton Cechov
regia: Massimo Castri
con: (in ordine alfabetico): Roberto Baldassari, Paolo Calabresi, Claudia Coli, Milutin Dapcevic, Angelo Di Genio, Miro Landoni, Mauro Malinverno, Laura Pasetti, Sergio Romano, Bruna Rossi, Roberto Salemi, Renato Scarpa, Alice Torriani, Barbara Valmorin
scene e costumi: Maurizio Balò
Roma, Teatro Argentina, dal 1 al 27 ottobre 2007
produzione Teatro di Roma, al teatro Sociale (Brescia) 20 - 24 febbraio 2008

www.Sipario.it, 28 febbraio 2008
Il Mattino, 19 gennaio 2008
Avanti, 13 ottobre 2007
Panorama, N. 42, 2007
Corriere della Sera, 24 novembre 2007
Il Manifesto, 7 ottobre 2007
Corriere della Sera, 7 ottobre 2007
Il Giornale, 9 ottobre 2007
Avvenire, 4 ottobre 2007
Il Messaggero, 6 ottobre 2007

L’ingresso di Barbara Valmorin (la balia) e il suo cadenzato contare i posti da apparecchiare intorno ad una tavola rotonda ha una forza che ben predispone. Quel tavolo rotondo piazzato al centro della terra desolata, inventata da Maurizio Balò, il fondale di un azzurro primaverile, che abbraccia e finisce con lo schiacciare i piccoli uomini che si agitano sulla scena della vita, traducono in immagine la lettura registica che Massimo Castri fornisce delle Tre sorelle di Cechov. L’ingresso alla spicciolata dei personaggi ce li presenta con le loro valige in mano, in arrivo chissà da dove o piuttosto in partenza per chissà dove, quella Mosca tanto anelata dalle tre sorelle che sperano in un riscatto esistenziale, in una svolta della loro vita. Quelle valige per Castri sono anche le valige di Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot, quella landa è una landa beckettiana, uno spazio sospeso fra interno ed esterno che racconta di una desolazione degli spiriti. Ma a differenza dei personaggi beckettiani in attesa di un Godot, quelli cechoviani sono condannati ad un’infelicità assoluta, a loro è negata anche l’attesa o la speranza di un futuro luminoso. Il fondale azzurro primaverile e il pranzo in onore di Irina sono apparentemente una festa. Quell’azzurro opprime, toglie il fiato, toglie l’orizzonte di vita. Al tavolo ci sono personaggi piccoli piccoli, delusi dalla vita, incarnazioni di atti mancati, come quelli di Andrea promettente intellettuale che finirà con l’accontentarsi di un posto di segretario nel consorzio, oppure il sogno del barone di lavorare per il progresso, un lavorare che non si fatica a leggere come stordimento fisico per far sì che al calare del sole il corpo dorma e con esso l’anima sofferente di infelicità. Il secondo atto è immerso in un nero angosciante, l'attesa delle maschere per la festa di carnevale sarà vana e se possibile si acuisce il senso di vuoto e di fallimento di quella comunità di uomini e donne condannati ad una solitudine asfissiante. Il terzo atto è un tripudio di colore, il fondale si tinge di un giallo accecante. È tempo di partire. Il reggimento lascia definitivamente la piccola cittadina di provincia, ma in quella partenza c'è la condanna definitiva delle tre sorelle a restare, a rinunciare anche alla possibilità di sognare un riscatto, una fuga in quella Mosca che è sempre più lontana. Massimo Castri costruisce una versione delle Tre sorelle di Cechov che lascia senza parole, che sconvolge per la capacità di rendere visibile il male di vivere di quella borghesia a cui il drammaturgo russo sottrae anche la speranza della felicità. La messinscena non conosce un momento di stanca, Mauro Malinverno, Claudia Coli, Bruna Rossi, Laura Pasetti, Alice Torriani, Paolo Calabresi, Sergio Romano, Roberto Salemi, Milutin Dapcevic, Renato Scarpa, Roberto Baldassarri, Angelo Di Genio, Miro Landoni, Barbara Valmorin non sbagliano una battuta, riescono a dare corpo alle parole. Il risultato è un allestimento intelligente e acuto che restituisce al pubblico la grandezza del teatro di Cechov e fa vedere che a fronte di un apparente 'non succedere nulla', il raccontarsi dei personaggi cechoviani finisce con l'essere la rappresentazione di un'angoscia esistenziale che appartiene non solo alla borghesia russa della fine dell'Ottocento ma anche alla nostra contemporaneità.

Nicola Arrigoni

«Tre sorelle» nell'esilio del presente

Castri al Mercadante

Come annuncia con enfasi il comunicato stampa dello Stabile napoletano, Massimo Castri - regista dell'allestimento di «Tre sorelle» che il Teatro di Roma presenta al Mercadante - considera quel testo «il più bello e più duro» di Cechov, e l'«autorevole espressione di un teatro della crisi». Ma le stesse cose, nel saggio «Teoria del dramma moderno», le aveva già dette Peter Szondi nell'anno di grazia 1956. E sulla base di un'analisi impareggiabile e insuperata: nel dramma in questione compaiono «esclusivamente individui soli, ebbri di ricordi, che sognano il futuro. Il loro presente è oppresso dal passato e dall'avvenire; è un intervallo, un periodo d'esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria perduta». Infatti - a parte Olga, Mascia e Irina, le tre sorelle Prozorov che, appunto, sognano di ritornare in quella Mosca dove nacquero e da cui si allontanarono al seguito del padre che aveva assunto il comando di una brigata in una grossa città di provincia (famoso il grido disperato di Irina: «A Mosca! a Mosca! a Mosca!») - il testo si popola di altrettali personaggi sospesi sul filo di un'identica stanchezza e nostalgia: innanzitutto il fratello delle tre, Andrej, che sogna a sua volta di ottenere (sempre a Mosca) una cattedra universitaria, e poi gli ufficiali della guarnigione, per i quali, anzi, il futuro acquista addirittura i contorni sfuggenti di una vera e propria utopia. Aggiungo, dunque, che con Cechov si precisa ancora meglio che con Ibsen la crisi del dramma nell'età borghese. La tragedia è impossibile, perché impossibili sono i conflitti morali. Sicché non c'è azione, in «Tre sorelle». Il presente non esiste di per sé, ma solo in funzione del passato, di cui costituisce un ricalco: già nella prima battuta del testo Olga, a un anno dalla morte del padre, dice: «L'orologio batteva le ore come adesso»; e «come adesso», insisterà Mascia nel secondo atto, la stufa gemeva «prima che morisse papà». Questi personaggi, insomma, annegano in un autentico lago d'immobilità. Ebbene, rispetto a tutto questo Castri si dimostra molto diligente. E in quell'aggettivo stanno sia i pregi che i limiti del suo spettacolo: le valige che i personaggi si trascinano dietro dall'inizio alla fine sono il simbolo proverbiale dell'esilio di cui parlò Szondi, mentre scontata è la dilatazione dei tempi per dire dell'immobilità. E non più che diligenti risultano anche gli interpreti. Fra i migliori Laura Pasetti (Mascia) e Paolo Calabresi (Kulygin). Alla «prima» qualche squillo di cellulare di troppo.

Enrico Fiore

"Tre sorelle" spietate

La stagione di prosa del Teatro Argentina ha preso il via con le "Tre sorelle" di Anton Cechov. Massimo Castri, che ne ha curato la regia, ha scritto che si tratta di un testo che parla di noi, a distanza di un secolo dal suo debutto, in maniera sorprendente e ci racconta tutta la nostra incapacità di vivere il presente e di costruire il futuro. Un testo che modifica l'immagine del cantore del crepuscolo della borghesia russa del tardo Ottocento e ci svela la complessità di un autore che espande la proprie radici molto lontano nell'accidentato territorio novecentesco con un atteggiamento disincantato e spietato nella sua lucidità.
Si tratta, per il regista, di un felice ritorno all'autore russo a distanza di vent'anni, dopo "Il gabbiano" che gli valse il premio Ubu e dopo aver lavorato sui grandi autori del teatro, da Euripide a Pirandello, da Ibsen a Strindberg. È questa senz'altro una tra le opere più dure di Cechov, un'opera che, oggi come oggi, si presenta con una sorprendente attualità. Nella storia che narra, il commediografo non è ne pessimista, ne ottimista, o è l'una e l'altra cosa, se è vero com'è vero che ogni poeta non può non affliggersi dinanzi al continuo sfasamento tra il suo ideale e la realtà che lo circonda. "Tre sorelle" resta, insomma, un curioso spettacolo misto di perorazione e rappresentazione, di ottimismo e pessimismo, di tempo allegro e tempo crepuscolare, di commedia di atmosfera e commedia di carattere, di pedanteria scenica e di immaginazione fotografica. Quando Versinin e specialmente Tuzenbach invocano un futuro migliore, sembra quasi che lo stiano evocando o sognando e più sembra che lo stiano sognando o evocando e più lo fanno col sentimento che con l'immaginazione. Ma quando l'invocazione arriva da Olga e Irina, si direbbe che sia stavolta l'autore a fare la predica per bocca loro. Le tirate diventano così ovvie ed edificanti, ovvero prese e dette alla lettera e in sede non di rappresentazione, ma di perorazione. Ai preparativi e ai saluti della partenza della guarnigione, che abbandona la città di provincia, c'è un ritmo appena più allegro, che però nulla toglie alla perdurante malinconia. Ma in seguito su quello stesso sfondo di suoni e di richiami, ecco passare e ripassare l'affranto Andrej che spinge la carrozzella del figlio con una mestizia degna della più convenzionale e risaputa delle commedie tradizionali. Il personaggio che fa da protagonista, quindi, conferma e completa l'atmosfera di caduta degli ideali e delle speranze, con quel suo vano cercare dapprima di tenersi su con le sorelle, per poi cedere di schianto alla realtà del suo stato di fallito. In questa messa in scena, prodotta dal Teatro di Roma, Castri s'è avvalso dell'apporto per le scene del tutto scarne ed essenziali e per i costumi del suo storico collaboratore Maurizio Balò. Il collaudato cast è composto da quattordici attori e il ruolo delle "Tre sorelle" viene interpretato da Bruna Rossi (Olga), da Laura Pasetti (Maša), e da Alice Torriani (Irina). Nelle altre parti sono impegnati Roberto Baldassari, Paolo Calabresi, Claudia Coli, Milutin Dapcevic, Angelo Di Genio, Miro Landoni, Mauro Malinverno, Sergio Romano, Roberto Salemi, Renato Scarpa, Barbara Valmorin. Le musiche sono firmate da Arturo Annecchino, nel suono di Franco Visioli.

Renato Ribaud

Tre sorelle, un'illusione

Olga, Mascia, Irina e gli altri non stanno aspettando Godot, ma piuttosto perdendo per sempre «il treno dei desideri e dei pensieri» che «all'incontrario va», come nella canzone di Paolo Conte: non c'è bisogno di arrivare all'ultimo atto per capirlo.
Li vedi lì con le loro valigie in mano, in attesa d'una ormai impossibile partenza per Mosca o per l'aldilà, e sai benissimo che per loro qualsiasi viaggio o utopia di fuga sarebbero stati inutili già all'alzarsi del sipario.
Charles Baudelaire diceva che la cosa più bella, a teatro, è il lampadario. Quello dell'Argentina di Roma, dove Tre sorelle di Anton Cechov, regia di Massimo Castri, è in prima nazionale fino al 27 ottobre, ha attirato più d'uno sguardo nel buio durante le 3 ore e 20 di questo spettacolo di cui sarebbe ingiusto dire male, ma impossibile dire bene del tutto.
Castri è un regista serio e di talento, ma forse qui gli fa velo un eccesso di venerazione per un testo, parole sue, «intoccabile nei suoi equilibri». Tra gli interpreti, diseguali, spicca Laura Pasetti nel ruolo di Mascia. Belle le scene di Maurizio Balò.

Roberto Bartolini

Per Cechov, regia scarna e dimessa ma di forte impatto

Massimo Castri propone un riuscito spettacolo corale che illumina una realtà di disperazione e di sconfitta. La sua messinscena de «Le tre Sorelle» di Anton Cechov è popolata da esseri annientati, vinti dalla vita, scialbi come scialbi sono i colori dei costumi. Sono personaggi sempre con la valigia in mano, pronti a partire per un altrove, «a Mosca, a Mosca», che è un altrove da se stessi che ormai non riesce più nemmeno a essere un sogno e forse nemmeno un desiderio. La regia apparentemente dimessa, che allarga i tempi, che non cerca soluzioni di forte impatto visivo, che mantiene una recitazione sommessamente «normale», cattura il senso di inettitudine di chi non riesce a dare significato alla propria vita e forse non lo vuole più nemmeno cercare. In scena solo un grande tavolo ovale, delle sedie e un fondale che si colora di azzurro, di grigio, di giallo, un irrealistico vuoto su cui si staglia un quotidiano essenziale ideato, come i bei costumi, da Maurizio Balò. I personaggi non sono indagati nelle loro pieghe psicologiche ma sono esseri frustrati senza tonalità emotive se non una rabbiosa mediocrità, una meschinità da quieto vivere che tutto accetta, un' acidità da impossibile rivalsa. Alice Torriani, Irina, Bruna Rossi, Olga, Laura Pasetti, MaÅ!a ben seguono il disegno registico e sono donne vinte, incattivite dalla vita, senza amore, povere esseri dai sentimenti raggelati così come gli uomini, il vuoto colonnello di Sergio Romano, il dottore di Renato Scarpa, il meschino professore di Paolo Calabresi, l' arrivista Natasha di Claudia Coli, il rassegnato ipocrita Andrej di Mauro Malinverno, la dolce tata di Barbara Valmorin.

Magda Poli

Tre sorelle approdano in un mondo spaziale

Roma

Ci sono, nella vita del teatro, momenti che paiono subito destinati a conservarsi nella memoria. Non c'è dubbio che sia così per il folgorante inizio delle Tre sorelle messe in scena da Massimo Castri al teatro Argentina. Solo un grande tavolo rotondo campeggia sull'acciottolato della scena, di fronte a un luminoso fondale. La vecchia serva va avanti e indietro apparecchiando. Quand'ecco arrivano lentamente i protagonisti del dramma che si va a rappresentare. Tutti vestiti con una simile mantella grigia. Tutti con una identica valigia in mano. Si guardano intorno, come cercando di capire in quale paese siano arrivati.
Più che villeggianti cechoviani, una pattuglia spaziale che giunge su un pianeta deserto e trova un (mondo) morto. O la compagnia della Contessa piovuta nella villa ormai deserta del mago Cotrone. Qualcuno si siede sulla valigia, prende a leggere il giornale. Da sotto le mantelle spuntano fuori divise militari e lunghi abiti bianchi.
Quel che è in gioco, è chiaro, non è un puro fatto estetico, al di là del nitore essenziale della scena disegnata da Maurizio Balò, immutata per tutta la durata dello spettacolo. È che quel momento che subito cattura all'interno dello spettacolo ne marca anche il colore, la tonalità emotiva. E torna in mente, per contrasto, l'inizio giocoso delle Tre sorelle secondo Eimuntas Nekrosius. Se c'era più Mejerchol'd che Stanislavskij, nella messinscena del regista lituano, qui c'è aria di Pirandello, di un teatro che ha superato la soglia del naturalismo e si apre alle nuove esperienze della drammaturgia novecentesca.
Castri per chi lo conosce un po' è artista dal temperamento ombroso, insofferente sulla scena e nella vita, profondamente pessimista. Tornando a Cechov, a distanza da un Gabbiano che si ritraeva progressivamente dentro le pareti del dramma borghese, sembra coglierne il lato più nero e disperato, privo di speranza proprio in quanto giocato sull'incapacità di vivere il presente, mano a mano che si mangia il futuro cui era affidata una speranza di cambiare la vita. E infatti presto non è più tempo di feste. Tutta la parte centrale dello spettacolo si svolge in una luce notturna. Sono passate solo poche stagioni ma già tutti i personaggi sentono che la gioventù se n'è andata. Con una attonita impotenza le sorelle assistono alla presa del potere domestico da parte della cognata Natasa, che da brava piccola borghese ha ben chiari i gradini della scala sociale e impara in fretta le regole della società, anche l'adulterio annoiato. Soltanto le valigie, rimaste attorno al tavolo, dicono ancora di un desiderio di essere altrove. Scompariranno da lì nel finale, per tornare in mano ai personaggi, non più comunità ma esuli nel paese di teatro.
Una considerazione a parte merita la giovane compagnia riunita intorno alla vecchia Barbara Valmorin, da Mauro Malinverno alle tre sorelle Bruna Rossi, Laura Pasetti e la sorprendente Alice Torrioni, e tutti gli altri. Capaci di restituire alle parole di Cechov l'ascolto che meritano.

G Man

Allestimento estremo per «Tre sorelle», monotono ma alla fine vincente

Castri, un Cechov «a teste tagliate»

La sera della prima, seduto dietro di me c'era un attore che, per passare il tempo, leggeva un copione. Nell' intervallo, un mio amico scrittore se la svignò alla chetichella. Io stesso, rientrando, mi sono lasciato andare a un commento sarcastico. Per la sua regia di Tre sorelle, per il suo ritorno a Cechov a distanza di 20 anni, in un certo senso Massimo Castri quel commento se lo meritava tutto: lo spettacolo era notevolmente monotono, uno stile da grado zero della scrittura, sottotraccia tutti gli effetti emotivi. Pure, alla fine del secondo tempo, 90 minuti che s' erano aggiunti ai 130 precedenti, se lo spettacolo fosse stato una partita di calcio, di quelle dell' Italia nei gironi di qualificazione, si sarebbe conclusa con una vittoria in extremis, con un gol di rapina, segnato da un giocatore coraggioso che aveva mascherato le sue per altro ben note virtù. Il punto messo a segno altro non era, a ben vedere, che quella sua monotonia, ovvero la sua persistenza, il suo estremismo. Intendiamoci, Massimo Castri ha una squadra di collaboratori, diciamo i mediani e le ali, di prim' ordine, i migliori che ci siano in Italia: alle luci Gigi Saccomandi, per la musica Arturo Annecchino, per scene e costumi Maurizio Balò. Chi faceva difetto erano gli attori, gli attaccanti. Si era commentato che la scelta di quei giovani interpreti era un gesto di coraggio. Ma in certe partite è meglio non rischiare troppo. In specie le tre sorelle, Bruna Rossi, Laura Pasetti e Alice Torriani, non fornivano prove di spicco: erano incolori come i loro vestiti, come le loro mantelline grigio-tortora, così eleganti e così snervanti. A sostenere il campo, con qualche guizzo, erano Renato Scarpa (Cebutykin), che non a caso otteneva l' unico applauso a scena aperta, Claudia Coli (Natascia), che conferma il suo talento istrionico, di quegli istrionismi che si consumano in corridoio o in cucina, insomma quando non si viene troppo notati, e Milutin Dapcevic (Solenyj), che per Castri è un porta-bandiera e un porta-fortuna. Ma dicevo della mia battuta e dei rischi corsi da Castri. Perché? in che modo? Desumo la risposta da un' intervista (cito a memoria): Tre sorelle è, di Cechov, la commedia più cattiva. Ecco, per Castri se gli scrittori (gli uomini?) non sono cattivi non sono buoni, non vale la pena avvicinarli, inutile occuparsi di loro. Se questo non è un partito preso, cioè un vero e proprio muro ideologico, mi chiedo che cosa sia ideologia: solo il comunismo? A partire di qui, una implacabilità da campo di sterminio. Ogni atto ha la sua luce, il suo colore, la sua caratterizzazione. A scena pressoché vuota (non c' è che un grande tavolo tondo con le sue sedie), la partita visiva si gioca solo sui fondali-parete di Balò: azzurro nel primo tempo, marrone nel secondo, nero nel terzo, giallo-uovo nel quarto. Dopo un primo minuto bellissimo, in cui gli attori entrano uno per volta, ciascuno con la sua valigia-baule, il suo bagaglio-feticcio (della vita), un primo minuto che dà il clima del dramma, un clima da acquario, dopo quel primo minuto, tutto il tempo viene scandito in modo ossessivo sulla stessa tonalità. Valerio Binasco provò a fare un Cechov veloce e fu un fallimento. Ma nella dilatazione degli spazi tra una battuta e l' altra, tanto da sottolinearne la qualità di soliloqui, che cosa si ottiene se non di doppiare Cechov? La cattiveria, per Castri, è svelata qui, nella dilatazione dei tempi, nel modo in cui il tempo, così offeso, mostra gli spazi vuoti che si aprono tra un piccolo mondo e un altro piccolo mondo. Ne viene fuori un Cechov da scuola dello sguardo, o letto da Nathalie Sarraute, tutto tropismi. Un Cechov potente e perfetto. Un Cechov oltre l' umano impietoso, un Cechov a teste tagliate.

Franco Cordelli

In quella maratona Cechov buttato come un cencio

All'Argentina di Roma un deludente «Tre sorelle» in cui il regista Massimo Castri si disinteressa totalmente alla poetica dell'autore rappresentato

Vale la pena di insistere per l'ennesima volta sulla liceità di certi allestimenti cechoviani quando, al timone dei suoi capolavori, c'è un regista totalmente disinteressato al mondo e alla poetica dell'autore da rappresentare. Noncurante al punto di cancellare dal suo badeker l'esplorazione del background che ha visto nascere l'opera come dell'universo che affidò alla memoria dei posteri. Il caso dello spettacolo che Castri ha tratto dalle Tre sorelle è esemplare al riguardo. Rifiutandosi di analizzare le componenti caratteriali di ogni personaggio della famiglia Prozorov ed escludendone drasticamente gli slanci elegiaci, l'assoluta fiducia nel lento evolversi della società e le motivazioni psicologiche di questi esclusi dal gran mondo della capitale sognato dalle protagoniste, il regista ha ridotto il mirabile canto fermo del grande poeta dell'Ottocento a una carrellata di lemuri e fantasmi beckettiani privi di epicentro, in fuga da se stessi e dalle passioni che li animano.
Rigettata l'ambientazione naturalista a favore di uno spoglio decorativismo, Castri ha puntato tutte le sue carte su un ridicolo simbolismo inutilmente fatto passare per metafisica o regno del silenzio. Con quel tavolo da pranzo dapprima vuoto e via via sovraccarico di addobbi prima di ospitare, sgombrati gli arredi in vista del tragico finale, un delirio di sedie vuote che alludono - secondo lui - alla definitiva messa a morte della borghesia. Adombrata, nella conduzione degli attori, nel voluto depauperamento emotivo delle grandi pagine tardoromantiche del copione. Per ottenere questo risultato, il regista dopo aver assoldato tre interpreti assolutamente inadatte a impersonare le grandi figure di Mascia, Olga e Irina, ha costretto il resto del cast ad adeguarsi alle sue direttive.
Rivolte in toto all'annullamento del testo, alla sua comicità rarefatta come a quella malinconia capace di coinvolgerci fino allo spasimo che, prima di lui e con ben altre frecce al loro arco, sono state appannaggio di ben altri allestimenti, quello di Otomar Krejca in particolare. Così, ad eccezione di Paolo Calabresi e Renato Scarpa, nessuno si è posto il problema di interpretare Cechov ma solo, in oltre quattro ore e passa, di buttarlo via come un cencio da rigattiere. Complimenti.

Enrico Groppali

Castri si tuffa nel vuoto di Cechov

Originale ma fedele messa in scena al teatro Argentina di Roma del drammaLe tre sorelledell'autore russo
C i dimenticheranno ­, dice Masha. E Vierscinin fa eco:­S, ci dimenticheranno. ­questo il destino dell'uomo. Siamo alle prime battute del dramma di Anton Cechov Le tre sorelle e il rimpallarsi del pessimismo sulla memoria, che dia senso alla vita,decisivo per co- gliere la grandezza del capolavoro. Con cui il Teatro di Roma, all'Argentina in prima nazionale, ha aperto la stagione 'invernale', con una regia nuova di zecca di Massimo Castri. Lui siaccinto a inscenare Tre sorelle (elidendo l'articolo) per accomunarlo ad Euripide. Entrambi danno forma teatrale, e forma nuova, a passaggi sociali da una condizione collettiva ad altro. In Cechov, pensa il regista,verso il niente.
E sisintonizzato con l'animus dello scrittore russo nello sfrondare l'espressione teatrale, dal realismo solido nei valori dell'800 al frammentismo di una­conversazione continuamente interrotta ­dove i valori si cercano invano. Anzi Castri spinge il processo piin lsfrondando anche l'ambiente (con la scena di Maurizio Bal) ridotto a uno spazio vuoto su un pavimento di detriti e su un fondale sempre picupo. Vi troneggia solo la tavola da pranzo, apparecchiata e sparecchiata, aggregante e disgregante. Cechov comunque nella sua veritdrammatica c'tutto intero. Soltanto ­una veritche ha referenti visivi non abituali: la piccola conventicola di provinciali che riempie il microcosmo di Masha, Olga e Irina entra in blocco nella scena, e ognuno reca una valigia, simbolo di instabilit. Quella appunto che, come un magone incurabile, domina poi nel dialogo spezzettato dei sentimenti senza speranza di vita migliore. Appena qualche vaga pulsione di progresso senza trascendenza, e quel celebre sogno rabbioso di tornare­a Mosca, a Mosca! ­. Una regia insomma che lascia il segno.
In un dramma essenzialmente collettivo, non di protagonisti, Castri concerta una compagnia bene assortita, calibrata nei caratteri, a parte certe eccitazioni eccessive, puntuale nei ritmi dell'azione. Nel trio centrale si distinguono Bruna Rossi, Laura Pasetti, Alice Torriani.

Toni Colotta

All'Argentina, regia di Massimo Castri, il testo di Cechov ha inaugurato la stagione dello Stabile

"Tre sorelle" per vivere un dilemma

Uscendo dal teatro Argentina dopo aver assistito alla rappresentazione di Tre sorelle di Anton Cechov, "rilette" da Massimo Castri, due, dentro uno spettatore, sono le condizioni prevalenti. Da una parte c'è l'animo contemporaneo, assuefatto alla poderosa sintesi psicovisiva di spot e trailer, e dunque afflitto, per contrasto, dal sonnolento quotidiano che l'opera esprime e il regista traduce. Dall'altra, l'animo universale, pur sempre vivo in ognuno di noi. Ed è questo, al di là del Nulla che accade in scena e del senso di frustrazione indubbiamente legato al nichilismo cechoviano, ad afferrarci alla gola domandando: sarà davvero così lontano, così diverso dai nostri, l'inane sforzo della gente di Cechov per vivere in un "altrove" inafferrabile? Siamo davvero in un altro mondo rispetto alla cittadina della provincia russa dove abitano, invocando il ricordo della natìa Mosca, Olga, Màscia e Irina, le figlie del defunto generale Prosòrov? E' irrimediabilmente ottocentesca la nenia di rimpianto nella quale esse si cullano, prigioniere di accadimenti piccoli, drogate da emozioni implosive, educate a non mai dilagare, ridotte a figurine senza scampo?
Lo spettatore affronta allora un dilemma insolito, che forse preferirebbe accantonare. Ripassa nel cervello, non volendo, anse, curve, intervalli, la rassegnazione di Olga, l'irrequietezza di Mascia, il candore ossessionante di Irina, le bestialità dei militari, il disperato vigore di Versinin, Mosca fata morgana e Andrej Prozorov condannato ad essere normale e cornuto, perché marito dell'unica femmina allegra di un gruppo anestetizzato. Si chiede se non debba, alla fine, apprezzare l'anacronismo, riconoscerne, pure oggi, le stimmate.
Castri muove i suoi attori (una compagnia scientemente omogeneo, monocolore) lungo geometrie quasi cerimoniali che vanno a formare l'armonia complessiva, un universo intero e tutti i suoi particolari. C'è persino, nel flusso sussurrante dell'azione, un intento cinematografico, esaltato dalle scene di Maurizio Balò (bello il pavimento di zolle piatte a larghe crepe, trasferibile ad ogni terra e ad ogni luna) e dalle luci di Gigi Saccomandi. Bruna Rossi è Olga; Laura Pasetti, Mascia; la giovane Alice Torriani, Irina (esiste un po' di esagerazione nel suo cinguettare bambinesco, a tratti stridulo?, glielo avrà chiesto il regista?). Mauro Malinverno è bravo nel rendere palpabile la quieta disperazione di Andrej; Barbara Valmorin grande nella sua Anfisa che accenna qualche passo di danza accompagnando verso il buio il suono di un organetto. Sergio Romano regala a Versinin burbanza e stupida poesia, come è giusto. Infine, Claudia Coli, eccellente Natalia che Balò avvolge nelle sole tinte accese dell'allestimento, e Castri conduce a una risata imbecille, strozzata in fondo al palato, da donnetta con la fede al dito cui non dispiace, all'occorrenza, una corsa in trojka in compagnia "illegittima". E Paolo Calabresi, Roberto Salemi, Milutin Dapcevic, Renato Scarpa, Roberto Baldassari, Angelo Di Genio, Miro Landoni. In scena fino al 27 ottobre.

Rita Sala

Ultima modifica il Lunedì, 23 Settembre 2013 07:00

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