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regia Gabriele Lavia

UOMO DAL FIORE IN BOCCA (L') - 
regia Gabriele Lavia

"L'uomo dal fiore in bocca", regia Gabriele Lavia "L'uomo dal fiore in bocca", regia Gabriele Lavia

di Luigi Pirandello
Regia: Gabriele Lavia
Scene: Alessandro Camera
Costumi: Elena Bianchini
Interpreti: Gabriele Lavia, Michele Demaria e Barbara Alesse
Produzione: Teatro della Toscana e Teatro Stabile di Genova
Genova, Teatro Duse, dal 30 settembre al 9 ottobre
Roma, Teatro Quirino 6 – 18/12/2016
Pontedera, Teatro Era 28 – 29/01/2017
Udine, Teatro Nuovo 2 – 4/02/2017
Livorno, Teatro Goldoni 17-18 marzo 2017

www.Sipario.it, 20 marzo 2017
www.Sipario.it, 22 dicembre 2016
www.Sipario.it, 5 ottobre 2016
L'uomo dal fiore in bocca...e non solo

Nei giorni di venerdì 17 e sabato 18 presso il Teatro Goldoni è andato in scena l'opera di Pirandello adattata e diretta da Gabriele Lavia, intrepretata da Gabriele Lavia, Michele Demaria, Barbara Alesse. L'opera nelle intenzioni di Lavia doveva essere il frutto del suo studio sul teatro pirandelliano portato avanti negli ultimi anni: Tutto per bene, La trappola, Sei personaggi in cerca d'autore.
L'uomo dal fiore in bocca, tratto dalla novella La morte addosso, è un atto unico rappresentato per la prima volta nel 1922. Dalla prima versione a quella portata sul palco da Lavia le modifiche sono molte e, purtroppo, non giovano all'opera andata in scena al Goldoni. Meravigliosa l'imponente scenografia di Alessandro Camera, alta ben nove metri che assume i contorni di una vecchia stazione anni '20, che fanno scivolare lo spettatore nel fumoso dipinto de La stazione di Saint Lazare di Monet.
Sfortunatamente per tutto lo spettacolo la stessa scenografia sarà utilizzata poco, uno sfondo sterile, le cui potenzialità non vengono utilizzate al massimo e anzi spesso propria la disattenzione al dettaglio nella regia rende la stessa scenografia una sorta di "cattedrale nel deserto", basti pensare che nelle uscite/entrate degli attori non venivano sempre rispettati i "segnali" della stazione, di uscita o per i treni. Spesso inoltre le musiche troppo alte, i rumori troppo assordanti, e quando vi era la pioggia, troppo pesante, coprivano le voci degli attori, che si perdevano tra le enormi volte di questa scenografica stazione.
Bisogna ammettere inoltre che il titolo è assai forviante. Se ci si aspetta un'opera incentrata sul monologo contornato da alcune sfaccettature, prevedibili da quel "...e non solo", si può rimanere fortemente "scottati", perché se l'idea del regista era quella di analizzare la tematica pirandelliana della morte e della figura femminile, figure che spesso si sovrappongono nelle opere dello scrittore, attraverso una cucitura di varie idee e pensieri derivanti, o desumibili, da essi proprio dalle opere di Pirandello e utilizzando come architettura portante proprio il monologo, ciò si risolve in un fallimento perdendo il monologo centrale quella potenza che per sua natura ha.
Per quegli spettatori infatti che non avessero mai avuto l'opportunità di aver visto prima L'uomo dal fiore in bocca, sarà stato difficile, se non impossibile capire quale fosse il monologo originale e quale l'adattamento, che se da una parte può sembrare un aspetto positivo, perché segno della bravura di chi sa mettere insieme un pensiero complesso innovandolo, in realtà non si viene a valorizzare tale orizzonte, ma bensì quello di un pastrocchio ben visibile agli occhi di chi invece quel monologo lo ha bene in mente.
Il monologo come base viene fortemente modificato, subisce un forte adattamento che ne ha causato lo snaturamento, tant'è che vi sono risate e canzoncine che male si addicono all'atmosfera che si intende creare, talvolta risultando infatti artificiose. Inoltre ci si trova tra una parte di monologo e l'altra a dover subire insegnamenti filosofici, solo per fare un esempio, che poco hanno di naturale in un dialogo, tant'è che lo stesso poi non è rivolto al pubblico, ma alla controparte attoriale. Quindi più che un insieme coerente e uniforme, più che un flusso che porta il pubblico verso la conclusione del ragionamento sembrava di trovarsi dinnanzi a blocchi scenici, compartimenti stagni, che sicuramente sarebbero stati più lontani e artificiosi se non fossero stati collegati dalla bravura degli attori.
Le reazioni poi dei personaggi spesso sguaiati ed eccessivi svestono fortemente quello che doveva essere uno studio sulle tematiche pirandelliane, non certo felici, abbassandoli a sterili stralci di tessuto qua e là malamente cucito insieme, rendendo quello che in origine era un percorso fluido verso la scoperta della morte del protagonista...e non solo, in uno sterrato difficilmente percorribile, pieno di pietrisco appuntito per lo spettatore.

Matteo Taccola

Una lunga tournée
"Un'albicocca spaccata a metà e spremuta..." è una delle immagini più sconce ed erotiche del teatro di tutti i tempi. (Gabriele Lavia)
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Era una notte buia e tempestosa, solennizzata da numi e canglori da 'dies irae', scenicamente resa pesta e parossistica, quella in cui nell'enorme stanzone (per "imprecisate attese") d'una stazione di provincia, arrivarono due individui: uno carico come somaro di colorate cianfrusaglie da recare in dono alle presumibili 'arpie' di famigli; l'altro solingo e stazzonato- dall'indole istrionica, giocherellona- palesemente in fuga da altra semi-invisibile femmina che lo tampina. Tutte donne 'avverse' e 'domestiche' (nell'accezione cupo-patriarcale degli aggettivi) dalle quali si dipende come bambini e alle quali si soggiace senz'ombra di misoginia (in una sorta di astio fatalista, tipico di certe afasie 'brontolone' di  uomini del meridione), anzi con edipica, non confessabile voluttà. Moglie e figlie esigenti per il primo; sposa devota, raminga (defilata come inelidibile ombra nera) per il secondo.
Siamo all'incipit dell "Uomo dal fiore in bocca", ma potrebbe anche essere il bizzarro, grottesco inizio di un inedito "Temporale" strindberghiano, se non fosse che la strologante dissertazione di Gabriele Lavia è già totalmente immersa tra i massimi sistemi della 'vacuità del vivere', dell'empietà con cui la matrigna natura gioca a rubamazzetto con i desideri, le fate morgane, le illusioni leopardiane dell'esistenza- qui condite di quel particolare gusto per l'edonismo intravisto, gustato e poi frustrato (irreversibilmente) di cui è ricca la letteratura e la natura stesse di Pirandello. Entrambe segnate dalle sciagure di famiglia e dall'oggettiva impossibilità sia di "recidere" i cordoni viscerali che ci legano alle creature amate (riconoscenza? pavidità? preventivi sensi di colpa al solo pensiero di esserne stato il 'motore'?), sia  di resistere (oltre un certo numero di anni) "lontani dal paradiso" che furono ideali, progetti, vitalismi di altri anni (in Germania) -poi  devoluti in straziata 'pena del vivere' che accompagnerà lo scrittore sin alle estremità dello scetticismo e dell'  "amaro miele", cui – in ricordo del caro Bufalino- solo "benigna morte" porrà imprevisto e sommesso sollievo.
Non serve quindi troppa fantasia o pessimismo per dedurre (alla maniera di Svevo e Silvio Benco) che l'unica, mortale malattia che "si porta addosso" l'uomo con l'epitelioma alle labbra non è la clinica evoluzione del suo tumore dall'enunciazione eufonica, ma il primario "Inconveniente di essere nato"  (citando Cioran) in un contesto terracqueo che non da    scampo o  alternative a chi, dalla 'non richiesta' venuta al mondo, pretenderebbe 'soddisfazioni, gratifiche, sollazzi' come il convitato ad una festa cui mai pensava di metter piede, ma vi è stato (empiamente?) "scodellato" solo per l'accoppiamento (animale, com'è giusto che sia) di un uomo e una donna che disveleranno essere i 'genitori-promotori' dell'umana, imperscrutabile giacenza.  Con la sola eccezione di chi, per vocazione o illuminazioni "lungo la via di Damasco" avrà la buona sorte di sapere dare 'significanza' mistica e metafisica al "dono" epifanico della natività. O per chi si accontenta, da appagato maschilista, a dedurre che "tra eros e thanatos.... c'è solo il sesso di la fimmina"... E perché non (anche) "Il bacio della donna ragno"?
Vada come vada, e come ben titolò un suo dimenticato film Marco T. Giordana, non c'è alibi né diserzione: "quando sei nato non puoi più nasconderti".  Il cui intimo significato (nichilista, pessimista, apocalittico ed altre ingiurie ...nulla tange) emerge con ilare, iperbolica potenza in questo spettacolo di e con Gabriele Lavia, gustosamente assecondato nei tempi e nei ritmi dialogici da Michele Dimaria  (maschera comica e 'inetta', come in certe commedie di Rosso di San Secondo)- e moderatamente farcito da mosse e contromosse estrapolate, per scaglie e aforismi, da altri capitoli di "Novelle per un anno", specie quelle in cui il paradosso filosofico-esistenziale è più radicalizzato oltre le coordinate (cerebrali? no, psico.sensitive) del  non-ritorno, per taluni tenebroso, per altri salvifico.
Ed infine, vuoi mettere il piacere di partecipare all'istrionismo di questo inedito Lavia, "umilmente" imperioso ma non titanico, "mediamente" isterico ma capace di auto.ironizzare (con stridule tonalità che parodizzano la categoria dell' "orfico")? Alla duttilità cupo- narcisista ma non lugubre, artefatta, dell'attore-regista, non più titanico (tutt'al più 'notturno'), finalmente umanizzata nella fisionomia di un piccolo professore, eidetico come suggeriva Husserl (dal fenomeno alla sua totalità), ma ferrato nel suo  sfinito timbro siciliano, con cui impartisce lezioni di vita (mal-vissuta) fra pantomime e forme didattiche che rimandano allo Zi Dima de "La giara" e ad alcuni, esistiti professori di lettere che cantilenavano di Petrarca, Ariosto ("e ...vedete mpò voi"), nei remoti tempi delle nostre (intermittenti, disamorate) presenze liceali?

Angelo Pizzuto

Con la rappresentazione de L'uomo dal fiore in bocca, in programma al Teatro Duse di Genova, Gabriele Lavia ha nuovamente dimostrato una predilezione per il teatro pirandelliano e una capacità non comune di arricchire classici appartenenti alle vette della nostra drammaturgia. La rappresentazione genovese ha coniugato con cura ogni suo aspetto: dalla recitazione all'uso delle luci e alla scenografia. Proprio quest'ultima colloca la vicenda in una grigia sala d'aspetto, nella quale i due personaggi, l'uomo dal fiore in bocca e l'uomo pacifico, dialogano. Lavia consegna al personaggio dell'uomo pacifico, interpretato da Michele Demaria, una funzione rilevante e non solamente quella di spalla tragica. L'interpretazione di Demaria è convincente nel rappresentare l'ansia e il senso di oppressione di un uomo schiacciato dai doveri imposti dalla vita sociale. I numerosi pacchi regalo che porta con sé sono emblema del carico delle convenzioni che è costretto ad accettare. È un uomo che desidera fuggire da questa vita, ma la quale inevitabilmente lo condanna all'angoscia. Entrambi gli attori forniscono una prova intensa e mirabile, dimostrandosi capaci di muoversi, con le parole e i gesti, in un luogo fisico ed ideale immerso nella caducità dell'esistenza e nell'idea della morte. Come il demone di un girone infernale, beffardo e oscuro, Lavia incalza con il tono della voce e con la presenza scenica. Lo stesso personaggio della moglie de l'uomo dal fiore in bocca, interpretato da Barbara Alesse, si muove oltre il vetro della sala d'aspetto della stazione, apparendo sfocata e muta come uno spirito indistinto. Così la scena si mostra allo spettatore come una dimensione in cui il tempo è sospeso e intriso di infelicità. Su tutto questo emerge con chiarezza la bravura e lo stile di Lavia, che plasma su di sé un personaggio simile ad un sacerdote del dio delle piccole cose: deluso dalla vita che è prossimo in quanto malato di un tumore ad abbandonare, ma intento a scorgerne i dettagli più poetici. La bontà della regia e della recitazione di Lavia fa così onore alla profondità del testo pirandelliano e dà la riprova delle vette artistiche che ha raggiunte.

Gabriele Benelli

Ultima modifica il Lunedì, 20 Marzo 2017 22:10

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