venerdì, 08 novembre, 2024
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INTERVISTA A GABRIELE LAVIA - di Francesco Bettin

Gabriele Lavia. Foto Carlo Bellincampi Gabriele Lavia. Foto Carlo Bellincampi

Istrionico e geniale, di grande formazione (Orazio Costa, Giorgio Strehler), attore e regista di enorme talento tanto da diventare negli anni un mostro sacro della scena, Gabriele Lavia è oggi uno dei pochi, grandi uomini di teatro del nostro paese. Diplomato all’Accademia d’arte drammatica di Roma, si rivela ben presto dotato di grandi capacità interpretative, iniziando ad accumulare esperienze importanti in cui si fa notare. Lavia nel 1975 comincia a fare anche regie (come lo stesso Strehler gli anticipò da giovane), anche di opere liriche. E’ stato direttore artistico dello stabile di Torino e di Taormina Arte, e co-direttore del teatro Eliseo di Roma. Si ricordano bene alcune sue interpretazioni cinematografiche, come nei film  Girolimoni, il mostro di Roma, di Damiano Damiani, Profondo rosso, di Dario Argento, ma anche ne Il Principe di Homburg, Scandalosa Gilda, Sensi, L’uomo dal fiore in bocca, da lui stesso diretti, e nel film di Pupi Avati La quattordicesima domenica del tempo ordinario. Per il teatro in tv, da ricordare è anche Scene da un matrimonio, di Ingmar Bergman, con Monica Guerritore. A teatro da anni mette in scena spettacoli di grande successo di autori come Pirandello, Strindberg, Shakespeare, Goldoni, con allestimenti sempre pronti a stupire per bellezza, visionarietà. E’ sposato con l’attrice Federica Di Martino, con cui divide la scena. 

Buongiorno, Maestro, e grazie per la disponibilità. Da poco è stato protagonista di una lettura scenica del Re Lear al teatro Argentina di Roma, dove interpretava tutti i personaggi. E’ stata un prologo dello spettacolo, che farà a novembre, sempre a Roma? 
L’intenzione era proprio questa, di leggere agli spettatori il testo e i suoi personaggi anche perché si rendessero conto del lavoro che viene fatto durante la messa in scena. Del resto il testo è una cosa scritta, la messa in scena è una scrittura di scena, un altro modo di scrivere . Ed è servito anche a me comunque leggere il testo, non solo al pubblico.  E tutto ha senso, naturalmente, se poi gli spettatori ci sono, a teatro. 

Di questo Re Lear prossimo, che debutta in autunno, la tournèe non si farà. 
No, anche se di queste cose non mi occupo, io devo studiare la parte, fare la regia, andare in scena e recitare. Subito dopo il Re Lear però so che faremo un altro spettacolo, Lungo viaggio verso la notte di O’Neill, che era stato deciso prima che mi venisse chiesto di mettere in scena il testo di Shakespeare. Per cui sarà con la commedia di O’Neill che gireremo, il Re Lear sarà soltanto a Roma e lo riprenderemo l’anno prossimo. Se sarò ancora vivo…

Dello spettacolo di Giorgio Strehler, il Re Lear del 1972, che la vide tra gli interpreti, che ricordi ha? 
Ne ho tantissimi, al di là della grandezza, della bellezza e dell’ispirazione particolare che ha avuto Strehler, perché ritornava al Piccolo Teatro dopo tanti anni e sentiva una certa responsabilità. Al di là di questo, lui voleva lasciare un segno e si capiva anche se non lo diceva a nessuno, se lo teneva per sé. Dal primo giorno di prove tutti abbiamo capito comunque che si sarebbe trattato di un capolavoro. Fu infatti un evento meraviglioso, irripetibile. Lui era in grande forma e credo sia stato lo spettacolo più importante della mia vita, intesa come formazione teatrale, la paideia, insomma. Avevo già avuto la fortuna di lavorare con un insegnante come Orazio Costa, un altro gigante come Strehler, ed è stata proprio una grande fortuna perché mi hanno aperto entrambi la testa, insegnandomi tutto. 

E lei, da allievo, presto è diventato un maestro, riconosciuto tale e amato dal pubblico, che ha sempre affollato le sale per vedere i suoi spettacoli…
SI, va bene, questo è successo ma non sono al loro livello, no, no. Stiamo parlando di persone, di artisti fuori quota. Quelli che nascono una volta ogni tanto. Guardi, come loro due non è nato ancora nessuno. Tutto questo per me, nella mia visione naturalmente. Quando si parla di loro stiamo parlando dell’assoluto. A volte nascono gli dei. Ci sono i grandi uomini, gli eroi, certo, ma gli dei nascono ogni tanto. 

Il talento, Lavia, sa dire cos’è, come ci si accorge di averlo? 
Il talento, già, che cos’è? Non si può dire, se non che è un dono. L’etimologia di talento si riferisce a una moneta di scambio, ma certo nello stesso tempo è qualcosa che qualcuno possiede. Se non si aveva il talento, la moneta, la farina non si poteva comprare. Il teatro qui si incastra bene. Se uno ha il talento quella farina la compra, e se non ce l’ha è inutile che si metta ad andare al mercato, non serve. 

Ci sono attori e registi che a quanto pare non ne hanno poi molto…
Sì, pero sono innamorati del teatro, dell’essere attori, registi. Il talento se c’è si vede, subito. Anche in un ragazzino, se c’è ci si accorge immediatamente. Poi però deve studiare, altrimenti non succede niente. Il talento ha bisogno di studio. Continuo con la metafora della moneta: se ce l’hai puoi andare al mercato a comprare quello che ti serve ma se poi non sai fare la zuppa di verdura…Ci si deve applicare, bisogna lavorarci su, come per fare la verdura appunto. Era Orazio Costa, il mio maestro, che amava fare gli esempi con la cucina. Diceva: la cucina è una cosa che assomiglia molto alla recitazione, io potrei parlare con voi solo per metafora. Per questa battuta ci vuole un pochino più di sale…o quest’altra è un po’ troppo piccante, meglio levare, farla più amara, o più dolce. 

Un grande insegnamento, senza dubbio. 
Alla fine con queste metafore l’attore capisce, non è difficile. 

Torniamo a quelli che non hanno particolare talento ma che il teatro lo vogliono fare lo stesso. 
Purtroppo a volte uno si innamora di una donna troppo bella che magari mette le corna in continuazione. 

Magari c’è la voglia di seguire una grande passione, forse di quel talento di cui si diceva prima non ci si rende conto di averlo o no. 
Infatti uno deve fare quello che crede sia giusto,  anche se la vita un attore già se la rovina se ha un po’ di talento, figuriamoci se poi quello non c’è. In linea di massima, eh. Ne ho conosciuti e ne conosco tantissimi che si sono rovinati la vita per il teatro, ma non possiamo farci niente. 

Il teatro ai giorni nostri tra sperimentazioni, innovazioni che lo portano da altre parti, e altro ancora è ancora rispettato secondo lei? O qualcuno ci gioca un po’ troppo, in qualche maniera lo dissacra? 
Anche qui, ognuno ha la sua visione e quindi è giusto così. In fondo che cos’è il teatro? Farlo, praticarlo vuol dire rappresentare il mondo. Ma quale mondo? Il proprio? Il tuo? Ma anche questo cos’è? Il mio mondo è una certa forma di rappresentazione dello stesso, devo quindi rappresentare la rappresentazione di una rappresentazione. E’ difficile, però questo ci dà la possibilità di rappresentare, poi a qualcuno riesce meglio, a qualcun altro meno bene, c’è chi ha più fortuna, chi meno. Qualcuno incontra maggiormente il favore del pubblico, qualcuno meno ma è un caso, a volte uno spettacolo può venir bene o meno bene. 

Lo stato di salute attuale? Ad esempio, tra i politici, il teatro viene vissuto, visto? 
Il teatro vive dentro i teatranti che non si devono aspettare che ci sia un politico che lo ami in particolar modo. Può accadere, certo. Ma spesso non li si vede nelle sale, non vengono a vedere gli spettacoli. Il Presidente Napolitano veniva, ecco, ma lui faceva il regista da giovane, mise in scena per a prima volta un testo di Peppino Patroni Griffi. Ma anche Pertini, Occhetto, Bertinotti, e Gianni Letta, che è un vero innamorato del teatro. Amarlo è’ una forma di educazione, a un certo momento credo che non si possa farne a meno, anche se uno spettacolo si sa che è brutto ci si va lo stesso a vederlo, vince la curiosità, la passione, l’educazione avuta. Non si va sempre per divertirsi, o per vedere un bello spettacolo. Si va a teatro per il teatro, solo quello. Anche se non sai cosa stanno rappresentando, ci vai, è un amore, e l’amore è cieco, come si sa. 

E come stato di salute nazionale, istituzionale? Ci sarebbe bisogno di qualche intervento in più, di qualche attenzione maggiore? 
Oh si’. Il teatro è molto antico e vive al di là di qualunque sovvenzione, impegno politico. Bisognerebbe riuscire a capire però che il teatro è la cosa più antica che è accaduta nell’umanità e attraverso la rappresentazione dell’uomo, l’uomo spettatore ha capito chi era nel momento in cui si è visto rappresentato. Se la politica capisse la filosofia che è sottesa all’evento che è il teatro, allora il mondo sarebbe molto, molto meglio. Perché se lo capisse la politica la cosa arriverebbe anche a tutta la società, che la capirebbe un momento dopo la politica, sennò vorrebbe dire che è soltanto una questione di passione. Che, comunque, è già qualcosa. Il teatro è una cosa molto importante, noi lo conosciamo dal quinto secolo avanti Cristo ma non possiamo pensare che sia nato con le costruzioni meravigliose tutte di marmo a forma di orecchio che sono i teatri greci. E’ nato molto prima, ma quanto prima? Hanno trovato dei frammenti di teatri di legno, addirittura, fatte di assi, maldestri. D’altra parte il mito del teatro è l’uccisione del dio Dioniso. Quando i Titani hanno fatto a pezzi, sbranato, Dioniso, e Apollo ha ricomposto i suoi pezzi mettendoli sopra delle tavole di legno e poi sono arrivati i pastori, i dragos, a cantare di dolore? E’ nato lì, non si sa quando, con i Titani figli della terra che erano invidiosi dell’amore che gli dei nutrivano verso Dioniso, che è il primo teatrante della storia. 

Un’ultima domanda. Lei ogni tanto torna anche a fare cinema, come interprete, ma volevo chiederle se ha pensato di poter ritornarci da regista. 
No, non credo, sono troppo vecchio ormai. Alla mia età per poter ricevere un’offerta del genere bisognerebbe essere come minimo Luis Buñuel (ride). No, no, ormai ho ottantadue anni, è fatta. Mi sono divertito a farlo. E le cose più belle per il cinema, che ho realizzato ritengo siano due: Il principe di Homburg, molti anni fa, che andò anche al Festival di Venezia, e L’uomo dal fiore in bocca, un film per la televisione di qualche anno fa, che riconosco proprio come un’opera non venuta male, nonostante i mezzi e i tempi ristretti che avevamo. Tutto questo però lavorando bene, sono dei bei ricordi.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Venerdì, 07 Giugno 2024 21:57

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