basato sull'omonimo romanzo di Vasilij Grossman, scritto e diretto da Lev Dodin, scene: Alexey Poray-Koshits, luci: Gleb Filshtinskiy, costumi: Irina Tsvetkova, con Tatiana Shestakova, Sergey Kuryshev, Elena Solomonova, Daria Rumyantseva, Elizaveta Boyarskaya, Alena Starostina, Vladimir Seleznev, Alexey Zubarev, Georgy Tsnobiladze, Igor Chernevich, Pavel Gryaznov, Anatoly Kolibyanov, Adrian Rostovskiy, Alexander Koshkarev, Igor Chernevich, Oleg Ryazantsev, Alexey Morozov, Sergey Kozyrev, Oleg Dmitriev, Oleg Ryazantsev, Alexey Morozov, Vladimir Zakharyev, Danila Kozlovskiy, Alexander Koshkarev, Stanislav Tkachenko, Stanislav Nikolskiy, Valery Lappo, Adrian Rostovskiy, Elizaveta Boyarskaya, Urszula Malka, Alena Starostina, Alexander Pulinets
Milano, Teatro Studio, dal 12 al 16 febbraio 2008
Una rete da pallavolo pronta a diventare gabbia, reticolato di lager o gulag, taglia la scena e dà la chiave attraverso cui Lev Dodin mette in relazione questi due universi speculari e gemelli nella polifonia spettacolare di Vita e destino, tratto dal fluviale romanzo postumo di Vasilij Grossman che il Maly Teatr pietroburghese ha presentato al Teatro Studio di Milano. Ma la rete è anche una ragnatela impalpabile, un gulag mentale e virtuale: basta una telefonata complimentosa di Stalin per trasformare il fisico ebreo Viktor Strum, da scienziato in odor di eresia per la sua «astrattezza talmudica», in leccapiedi di regime; sua madre invece è un'accorata prefica della tempesta epocale, dello Sturm che travolge gli Strum. Com'è facile passare di qua o di là dalla rete, da amico diventare nemico, da sopraffattore farsi vittima o viceversa, mentre la storia incede con gli scarponi
chiodati (siamo all'epoca della battaglia di Stalingrado) e i reietti del lager marciano cantando. Ma sì, sembra dirci Dodin: solo la catarsi redime le catastrofi, solo il teatro trasforma la vita dei perduti in destino.
Roberto Barbolini
Lager e gulag a teatro: il monito di Dodin
Afferma Dodin, il grande regista del Maly Teatr di San Pietroburgo considerato lo Stanislavkij di oggi: «Il teatro serve a non dimenticare, a mettere segni dove si vorrebbe cancellarli, a resistere al pensiero dominante». E mai come in questo Vita e destino tratto dal romanzo di Valerij Grossman, le sue parole trovano evidenza. Dodin in questa ultima impresa imprime segni forti, che fanno breccia nella coscienza dello spettatore. Vita e destino (Zizn i sud'ba), uno spettacolo fiume, uno spettacolo monstre, dove il regista nell'arco di quasi quattro ore si esprime come sempre con una fantasia libera e robusta. Regalando momenti di grande emozione. Soprattutto nelle scene di carattere corale, là dove l'azione ci trasporta nei lager e nei gulag. E, al suo servizio, un cast di attori magnifici (in testa uno straordinario Sergey Kuryshev). Il grandioso lavoro ha debuttato l'anno scorso a Parigi ed è arrivato adesso per poche sere al Teatro Studio davanti a un pubblico attentissimo. È Vita e destino spettacolo che si inserisce in quel filone – epico popolare che è caratteristico del regista russo (a ricordare il possente Fratelli e sorelle), un atto d'accusa ai totalitarismi. Al comunismo e al nazismo, due fenomeni che per Grossman, come viene esplicitato in una delle scene centrali agite da un vecchio bolscevico e da un ufficiale delle SS, sono della stessa natura in quanto incarnano il Male che si manifesta nel dispregio dell'uomo e della libertà. Si racconta la saga di una famiglia di ebrei russi (qui, nella riduzione, con qualche variazione parentale). I personaggi sono delineati psicologicamente e moralmente in relazione alle loro relazioni di fronte alle difficili situazioni in cui li pongono la guerra e la dittatura. E avanti tutti quello del fisico Viktor Strum che alla bomba atomica lega la sua vita e il suo destino. Osannato dapprima, poi umiliato, finché 'recuperato' da Stalin stesso, si scorderà dei familiari e si farà delatore costretto. A fianco della sua tormentata vicenda però a muoversi altre vite, altri destini: Di donne che comprendono od esigono, di figli innocenti, di gente nel ghetto, di soldati che soffrono nei campi di concentramento.
Come negli altri suoi lavori, l'abilità di Dodin è quella di tener legato ogni momento della storia pubblica e privata, ogni ricerca di identità o di livellamento, passando da momenti gioiosi ad altri tragici. Da una iniziale felice partita di pallavolo di ragazzi ad agghiaccianti ed emotivamente forti momenti di vita nei campi di concentramento (si veda la folgorante sequenza finale dove i reclusi sfilano suonando una tragica marcia del destino). Uno spettacolo (e poco importa se a tratti scende in esso un filo di prolissità) al tempo stesso splendido e terrificante che ci dice come anche il teatro può lottare contro l'oblio, contro certi 'vuoti di memoria'. Pertanto, uno spettacolo contemporaneo.
Domenico Rigotti