di Anton Čechov
adattamento Kriszta Székely e Ármin Szabó-Székely
traduzione italiana Tamara Török curata da Emanuele Aldrovandi
regia Kriszta Székely
scene Renátó Cseh
costumi Dóra Pattantyus
luci Pasquale Mari
suono Claudio Tortorici
Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale
INTERPRETI / PERSONAGGI
Paolo Pierobon / Vanja
, Lucrezia Guidone / Jelena
, Beatrice Vecchione / Sonia
Ivan Alovisio / Astrov
Ivano Marescotti / Serebrjakov
, Ariella Reggio / Maria Vassiljevna
,
Franco Ravera / Teleghin
, Federica Fabiani / Marina
Teatro Carignano di Torino dal 7 al 26 gennaio 2020 - Prima nazionale
Lo spettacolo, dopo le recite torinesi, andrà in scena il 29 e il 30 gennaio 2020 al Teatro Katona József Színház di Budapest.
La scena rievoca la scatola in cui erano rinchiuse le Trois Soeurs di Cechov con la regia del francese Simon Stone, un’integrale rivisitazione di straordinaria icasticità nella coproduzione tra Odéon-Théâtre de l’Europe e il Teatro Stabile di Torino. Uno spettacolo che declinava in termini personali e attuali il dramma di Cechov lasciandone intatto lo spirito, che si percepiva irradiato uniformemente in tutto l’allestimento. Questo sentire non si rinnova nell’odierno Zio Vanja, che propone un adattamento ondivago, tra il passato e il presente, tra l’epoca in cui fu redatto dallo straordinario autore russo, il 1896, e la quotidianità in alcuni suoi aspetti di forte decadenza, negativi, peggiorativi. O tempora o mores riecheggia millenario, è sempre accaduto che si denigrasse il proprio e si esaltasse il tempo andato. Inoltre Zio Vanja è un dramma dell’inanità, della solitudine, dell’apatia, delle aspirazioni irrealizzate come l’intera opera di Cechov. Ammodernarne certi risvolti non fa giustizia alla lungimiranza dello scrittore ambientalista ante litteram, profondo e poetico, anzi sminuisce e svilisce la portata dell’opera. Il personaggio dell’insopportabile Serebrjakov è diventato un criptico regista cinematografico d’avanguardia e la figura del medico Astrov nel terzo atto riferisce anziché il bel monologo sulla riduzione delle foreste, che nella traduzione di Angelo Maria Ripellino termina con “[l’uomo] distrugge tutto, senza pensare al domani”, ha invece una volutamente tediosa battuta sulla gravissima crisi climatica in cui cita l’innalzamento delle temperature e del livello dei mari, l’inaridimento del suolo, la concreta minaccia di estinzione corsa dal genere umano, trasformando uno dei passaggi più sorprendenti in cronaca. Il palcoscenico non è una tribuna comiziale né una redazione giornalistica. La scenografia restituisce il senso di prigionia e incapacità di realizzare le proprie aspirazioni, forse non così chiare agli stessi personaggi, che si dibattono frenetici nelle rispettive auto-condanne all’infelicità. Sviluppati sulla linea dell’esplosività, come ordigni disinnescati, tra le pareti che comunque li ostacolano e proteggono evitando loro di correre rischi, tutti gli interpreti si muovono bene, aderendo alle suggestioni dei ruoli. In particolare si elogiano il Vanja di Paolo Pierobon e la Sonia di Beatrice Vecchione.
Maura Sesia