di Anton Cechov
adattamento originale: Gabriele Vacis e Federico Perrone
con Eugenio Allegri, Laura Curino, Paolo Devecchi, Michele Di Mauro, Lucilla Giagnoni, Davide Gozzi, Alessandro Marchetti, Laura Panti, Francesca Porrini
regia: Gabriele Vacis
composizione scene, costumi, luci e scenofonia: Roberto Tarasco
Torino, Teatro Carignano, dal 2 al 15 febbraio 2009
È sintomatico che Carmelo Rifici, parlando dei Pretendenti di Jean-Luc Lagarce da lui felicemente messo in scena al Teatro Studio di Milano (fino al 18 febbraio), si richiami a certi testi cechoviani: la vita ristagna nella noia della campagna russa, proprio come la lingua gira su se stessa nei dialoghi inconcludenti dei 17 personaggi in scena, membri d'un imprecisato circolo di provincia al cui vertice è in atto una sostituzione. Il tratto cechoviano del formicolante testo di Lagarce è insomma quello stesso senso d'immobilità che s'avvita alle parole e ai destini in Zio Vanja. Gabriele Vacis, allestendolo per il restaurato Carignano di Torino (fino al 15 febbraio), punta su una florida schizofrenia fra l'inerzia psicologica dei personaggi e l'animazione del mondo rurale e arboreo che li circonda, con quelle betulle così espressive, quasi parlanti. Ma il gioco riesce a metà. Sul fervore finisce per prevalere l'apatia: gli attori, un po' spiazzati, han l'aria di dirci, come Sonja nel finale: «Che fare? Dobbiamo vivere». E Lagarce, per una volta, batte Anton Cechov.
Roberto Barbolini
Prima del debutto sul palco c' erano il presidente del Carignano Evelina Christillin e il sindaco della città Sergio Chiamparino. È stata annunciata una pioggia di record. Ristrutturazione completa del teatro in 18 mesi. Moltiplicati gli abbonamenti con la direzione artistica di Mario Martone. Spesa relativa rispetto a progetti culturali consimili. La platea era illustrissima: dai membri del consiglio d' amministrazione ai molti direttori di giornale, dagli (per la neve) «eroici» ospiti romani Benigni e signora ai torinesi eccellenti Baricco, Chiambretti, Elkann padre e figlio, Littizzetto. La ciliegia sulla torta erano i giocatori della Juventus: davanti a me avevo la preziosa testa di Del Piero, seduto tra Pessotto e l' allenatore Ranieri, tutti molto applauditi, «vera e propria bandiera della città». E insomma: approdare a Zio Vanja, per la regia di Gabriele Vacis, è stata dura. Dopo la desuetissima féerie mondana, come tornare alla realtà, cioè alla finzione, al teatro? Lo sconcerto iniziale è stato notevole. Perché quell' odioso sipario di plastica poi sollevato a metà da un' asta? Perché quella balia (Laura Curino) così tremendamente leziosa, così imbacuccata da balia? E perché quell' Astrov (Michele Di Mauro) così fisicamente ingombrante? Meno ancora, per puro pregiudizio, mi convincevano Vanja e Elena: Vanja è un tipo bizzarro, ma quel Vanja lì (Eugenio Allegri), con i capelli a corona, da Pampurio, sembrava bizzarro all' eccesso; e quell' Elena (Lucilla Giagnoni), così addobbata, con uno spolverino simile a quello della Littizzetto, non era una concessione eccessiva alla platea, cioè ai tempi nostri? La verità è che Zio Vanja non riesce quasi mai. Clamorosamente sbagliò Peter Stein (perché, io credo, impiegò attori italiani). Poiché aveva letto la parola girasoli e ne aveva impiegati di giganti, per cattivo gusto sbagliò Tiezzi e, per strambo divismo di Alessandro Haber, sbagliò Nanni Garella. L' unico Vanja che ricordo con simpatia è d' una ventina d' anni fa, con un Lavia dai corti e rossi capelli: eccentrico al punto giusto. Inutile dire che lo Zio Vanja al quale noi contemporanei pensiamo con incondizionato affetto, di teatrale ha solo l' origine ed è quello di Louis Malle. Ma è giusto dire che se dapprima si veniva delineando il problema dello spettacolo di Vacis, determinato dalla sua poetica, un problema di dismisura della naturalezza, fino a ridurla a familiarità e/o ammicco («cosa vuoi fare se non invecchiare, uhm?» - dove quel verso finale è la vera sigla degli intendimenti del regista), è giusto dire che con il passare del tempo lo spettacolo trovava un suo equilibrio, benché mai giungendo alla trepidazione, alla commozione, alla vera malinconia. Gorki diceva che Cechov non era buono, era un uomo freddo come la neve. Ma noi sappiamo che non è così. Si tratta di riscoprire, ogni volta, come quella presunta mancanza di bontà sia una bontà superiore: non è buono chi lo è verso uno, o altro, secondo gli accidenti della vita. Ciò che conta è sempre l' insieme. Per Vacis, in questo insieme possono comparire parole come buen retiro, naïf, birignao - altro tipo di concessioni, cioè di finta bontà. Ma per fortuna può tornare l' immagine del regista che Vacis fu agli inizi, il regista delle lenzuola di Elementi di struttura del sentimento. Quegli stendardi qui sono i tappeti: cioè i tappeti dell' infanzia, sua e di tutti. È quel minimo di dolcezza che ci riconcilia con il suo modo di intendere la rappresentazione, intriso di troppa complicità sia con il testo sia con il pubblico.
Franco Cordelli
Vorremmo (avremmo voluto) raccontare un'apoteosi: il Carignano restituito alla città più sfolgorante che pria, un parterre che chissà quando ne avremo un altro uguale, la sordina alla lagna (per una sera, via!) e poi lustrini, radiosità, l'orgoglio nel pensare «io c'era». Che mancava? Che cosa ha impedito a un avvenimento importante di diventare una serata memorabile? Forse una cosa sola: lo spettacolo. Caricato d'attesa, gravato dalla responsabilità dell'inaugurazione, lo Zio Vanja di Cechov diretto da Gabriele Vacis si è mostrato al di sotto delle aspettative. Perché? Perché la scelta di Mario Martone si è rivelata fragile?
Zio Vanja è la commedia della paralisi. Nella tenuta immaginata da Cechov la vita sembra girare come una vite senza fine: a vuoto. Tra afa, aria di temporale, scrosci di pioggia, Vanja, il dottor Astrov, la bella Elèna, la fragile Sonja non fanno che parlare e recriminare: hanno fallito il loro progetto di vita e non hanno più l'età per cambiare. Tuttavia la loro apatia è increspata da un flusso sotterraneo di tensioni, amori non ricambiati, rivalse; vedi per esempio quel che accade tra Vanja e il cognato Serebrjakov. Quest'ultimo è considerato un genio. Per anni è stato riverito. Ma quando propone di vendere la tenuta, Vanja, che l'ha amministrata a beneficio dell'altro, si sente tradito ed esplode contro di lui due colpi di pistola che vanno a vuoto. È l'unico momento in cui accade qualcosa. Quando Serebrjakov e la moglie se ne tornano in città, nella tenuta tutto ricomincia come prima, fino alla fine dei giorni, prevede Sonja.
All'origine di Zio Vanja c'era una sorta di «cartone» intitolato Lo spirito dei boschi, di forte impronta ecologista ispirata verosimilmente da Tolstoj. Quel lamento per una natura già a rischio è incarnato dal dottor Astrov e attraversa Zio Vanja con l'abbaglio di un progetto di lotta votato alla sconfitta. Vanja come Lopachin nel Giardino dei ciliegi? All'incirca.
Motivi multipli, che arrivano a folate e si spengono. Vacis li affronta con doppia strategia. Da una parte richiama quella forma di movimentismo teatrale che è la cifra sua più personale; dall'altra si mostra attento alle ragioni del grande repertorio. Risultato: spolpa la materia all'essenziale, crea l'immobilità psicologica portando gli attori in proscenio mentre, alle loro spalle, scatena la fisicità dei lavori servili, il viavai di tavoli, poltrone, divani; cambia continuamente cornice facendo calare dall'alto arredi, tappeti, alberi: le betulle con le chiome in su nel momento dell'ottimismo; rovesciate e contorte alla fine. E bisogna dire che, nelle sue suggestioni, il lavoro scenografico di Lucio Diana e Roberto Tarasco è di infallibile fascino.
E gli attori? Tutti di valore, presi individualmente. Ma qui sembrano davvero fuori posto. A parte Laura Curino marginalizzata nel ruolo della balia, gli altri sono visibilmente in affanno. A Lucilla Giagnoni mancano troppe prerogative per rendersi credibile come sensuale Elèna; Michele Di Mauro è appena accettabile nel ruolo di Astrov; Francesca Porrini è evanescente nella parte di Sonja; Alessandro Marchetti sfodera per Serebrjakov una recitazione naturalistica in chiara dissonanza col resto. E Eugenio Allegri? Invece di fare Vanja, hai l'impressione che ce la metta tutta per fare Allegri.
Osvaldo Guerrieri