venerdì, 08 novembre, 2024
Sei qui: Home / Attualità / DAL MONDO / Interviste / INTERVISTA a FABRIZIO FAVALE - a cura di Michele Olivieri

INTERVISTA a FABRIZIO FAVALE - a cura di Michele Olivieri

Fabrizio Favale Fabrizio Favale

Fabrizio Favale è nato a Velletri in provincia di Roma. Ha iniziato la sua formazione nelle classi di maestri di danza classica e contemporanea tra cui Denis Carey, Victor Litvinov, Sue Carlton Jones, Andé Peck, Roberta Garrison, Jeff Slayton, Betty Jones, Nina Watt, Irene Hultmann, Louise Burns e Alwin Nicholais. Grazie alla vincita di una borsa di studio, nel 1990 si trasferisce in America e prende parte all'American Dance Festival alla Duke University nel North Carolina. In qualità di danzatore riceve nel 1996 il "premio della critica come miglior danzatore italiano dell'anno". Come coreografo nel 2011 la "Medaglia del Presidente della Repubblica al talento coreografico italiano". Dal 1991 al 2000 è danzatore per la compagnia Virgilio Sieni. Nel 1999 fonda la compagnia "Le Supplici". Dagli anni successivi i suoi lavori sono invitati in importanti contesti della scena internazionale come La Biennale di Venezia, Suzanne Dellal Tel Aviv, Expo 2010 Shanghai, SIDance Seoul, Kitazawa Town Hall Tokyo, La RED Serpiente Messico, Santarcangelo Festival, Gender Bender, Danae Festival Milano, Festival of Edinburgh, Internationale Tanzmesse NRW Dusseldorf. I lavori "Un ricamo fatto sul nulla" e "Il gioco del gregge di capre" ricevono premi per la coreografia in Spagna, Germania e Serbia. Tra il 2005 e il 2007 realizza il progetto "Mahabharata" – episodi scelti in cui collabora con Francesca Caroti, Roberta Mosca e David Kern (Forsythe Company) e con il gruppo Mk. Nel 2012 realizza un cortometraggio per "The Valtari Mistery Film Experiment" dei Sigur Rós. È ideatore di una serie di progetti indipendenti dedicati alla ricerca tra cui: Piattaforma della Danza Balinese per Santarcangelo Festival e Gamelan progetto interamente prodotto dal Festival Fabbrica Europa Firenze ed esportato in altri importanti contesti della nuova danza (entrambi i progetti sono co-ideati con i coreografi Michele di Stefano e Cristina Rizzo), "Leib" 2004, "Piana del Mar" 2007, "Circo Massimo" per Teatro Duse e "Le Supplici Youth dance Art" 2017 un atelier periodico tenuto direttamente dai danzatori della compagnia "Le Supplici". Collabora con musicisti internazionali come Mountains, Teho Teardo, Daniela Cattivelli. Il lavoro Ossidiana è invitato alla Biennale de la Danse de Lyon 2016 e la produzione CIRCEO 2017 è coprodotta da Théâtre national de Chaillot, Paris. Tra i suoi lavori: Ganimede Show 1999, Vent – The Perfect Place – 2000/2001, Vent – Pulverized version – 2002, Vent Pulverized | l'errore 2003, Opera scorpione 2003, The unclean rest 2003, II H 2005, Mahabharata – episodi scelti 2005/2008, Kauma 2008, Voglio essere tuo allievo 2008, Il gioco del gregge di capre 2008, Se fossero le Alpi 2009, Infanzia di San Francesco d'Assisi 2011, Un ricamo fatto sul nulla 2011, Isolario 2012-13, Cartografia disabitata 2012-13, Tre Inverni consecutivi 2013, Alberi 2014, Fantasmata (lecture / performance) 2014, Orbita 2014, Ossidiana 2014, Hood 2015, Sant'Ingenuo 2015, 12 Tónar 2015, Waterfalls 2016, Seagull Sleeps 2016, Giuliano 2016, Studi per Circeo (Narvalo, Vavilov, Hekla) 2016.

Ciao Fabrizio, da dove parte il tuo interesse per la danza?
Dalla possibilità, credo, di indicare mondi inesistenti.

Quali sono state le tue figure di riferimento nel periodo della formazione?
Trisha Brown, Merce Cunningham, José Limon. I miei maestri sono stati principalmente americani e quasi tutti danzatori di questi tre giganti della danza.

Qual è la maggiore qualità estetica che apprezzi applicata al movimento?
Mi interessa la ricercatezza, la complessità, la raffinatezza del movimento, anche in quello più selvatico, per così dire. Non mi interessano le vie della narrazione teatrale o della spettacolarità fine a sé stessa, che ammicca al consenso del pubblico.

La tua danza si basa su un linguaggio libero da ogni tentativo di rappresentazione o tutto segue sempre un filo logico nella narrazione?
Per me la danza non narra delle cose del mondo, ma è una manifestazione e un modo dell'apparire del corpo umano (ma anche di molti altri animali), che abbandona la mondanità mediante l'attraversamento di tutte le forme, per scagliarsi al di là, verso gli astri, potremmo dire. Ecco perché astrazione è il termine che a mio parere più le si addice!

Parlami del tuo periodo negli Stati Uniti, dove hai vissuto l'esperienza all'American Dance Festival?
Nel North Carolina, dove si svolge d'estate il Festival. Nel campus e negli spazi della 'Duke University'. È stata un'esperienza fondamentale. Lì ho trovato quello che, dopo anni di irrequietezza, andavo cercando con ardore. Poter incontrare maestri del calibro di Jeff Slayton o Betty Jones è stata una fortuna non da poco. È anche uno scrigno del tesoro della memoria da riaprire di tanto in tanto, o spesso, a seconda. Parlo di irrequietezza, perché qui in Europa abbiamo una danza delle emozioni, per così dire, e tutto è in funzione delle esperienze umane. Ero stato preparato alla danza qui in Italia da maestri eccezionali come Roberta Garrison e André Peck, anch'essi americani, ma se mi guardavo attorno mi pareva che tutto andasse da tutt'altra parte. Quella visione della danza mi stava strettissima. Ho sempre creduto che esistesse un'intelligenza diversa, da esplorare. Che bisogno c'è, mi chiedevo, di danzare la mondanità, la quotidianità, le emozioni o i sentimenti se già li viviamo? Mi sembrava un passare e ripassare sullo stesso tracciato egoico. Ma negli Stati Uniti vidi con i miei occhi (a diciannove anni) che altri mondi erano possibili.

Quali sono le maggiori esperienze e ricordi che custodisci di quel periodo?
Aver visto "Set and Reset" di Trisha Brown, senz'altro, con il cast originale (con Irene Hultman, fra l'altro, e l'anno successivo sarei divenuto suo allievo a Reggio Emilia). E poi repertorio Cunningham, Graham, Limon. Essendo poi la 'Duke University' un campus universitario immerso nei boschi e nell'immensa natura americana, si respirava un'atmosfera pressoché introvabile dalle nostre parti, e che era fatta di totale immersione nelle attività che la borsa di studio prevedeva, ma anche di gioco, di nuovi amici, di totale apertura, di scorribande nei boschi. È stato senz'altro come vivere una realtà magica.

Per quasi dieci anni hai danzato con la Compagnia di Virgilio Sieni. Qual è stato il valore aggiunto nell'aver lavorato così a lungo al fianco del M° Sieni?
Sieni mi vide a Reggio Emilia che ero ancora studente (avevo vent'anni) e mi propose subito di lavorare per lui. Non aveva ancora una compagnia stabile e lavorava per lo più con danzatori del Comunale di Firenze o del Balletto di Toscana. Inizialmente ero un po' dubbioso perché non volevo legarmi troppo presto ad una compagnia. Ma l'atmosfera che trovai in sala prove era molto aperta e mi affascinò. Sieni mi lasciava libero di sperimentare e di creare. Fece senz'altro tesoro del bagaglio di movimento freschissimo e vario che portavo con me. Disegnò per me danze bellissime e complesse che soddisfacevano appieno la mia energia poco più che adolescente. In Italia non potevo chiedere di più, e, d'altronde, volevo con tutto me stesso vivere in Italia. Sieni mi ha fatto coreografare anche molto le mie parti danzate, specie negli ultimi anni. Quello che ho imparato da lui è stato, credo, essere me stesso, quello che ero. Inoltre la sua bravura nel gestire i grandi gruppi e l'insieme del lavoro è stato per me un esempio fondamentale.

Da dove nasce poi l'esigenza di coreografare?
Non credo ci sia mai stato un momento in cui non ho coreografato. Diciamo che a un certo momento, dopo l'esperienza con la compagnia Sieni, l'esigenza si è fatta più importante. Certo il mestiere del danzatore e del coreografo non sono affatto la stessa cosa. È un errore grossolano pensare che lo siano. Se le due vie coesistono nella stessa persona, andrebbero considerati come gli occhi di certi cani delle zone polari, uno azzurro, uno castano. Eppure è di cani delle zone polari che parliamo quando parliamo di coreografi, perché, a mio parere, è indispensabile che un coreografo sia stato anche un danzatore. L'autodidattica è un'assurdità. Nessuno può davvero imparare solo da sé stesso. Come dicevo poco fa, della danza mi interessa la sua possibilità di indicare mondi inesistenti e definitivamente non riconducibili alla mondanità. Questa possibilità è ciò che più mi emoziona. Penso di non essere mai stato tanto commosso come quando ho visto "Opal Loop" di Trisha Brown: un lavoro disarmante che si proietta in una distanza senza possibilità ritorno.

Quanto è fondamentale nel tuo lavoro saper ascoltare gli altri, relazionarsi con gli elementi e lo spazio?
È fondamentale! È dall'ascolto che nascono le idee, non dal dire. Potremmo dire che le idee sono le risposte ai silenzi, persino. Le invenzioni che generano i nuovi lavori le rintraccio spesso in solitudine, ma sempre in risposta a un atto di ascolto, sia con i miei collaboratori o danzatori, sia con la musica, con i paesaggi, con l'immaginazione, con gli animali...

Ho avuto modo di assistere ad alcuni tuoi lavori, e ho notato, che la tua è una danza che affina la percezione, o sbaglio?
Non saprei. Non ho mai suggerito a nessuno come guardare la mia danza, e non ho idea degli effetti che ha, se ne ha. Di certo si dispiega su tempi lunghi, che hanno a che fare con variazioni a volte impercettibili, minime. Non sono interessato al puro intrattenimento, a quell'efficacia spettacolare che somiglia troppo alla televisione o a youtube. Sono interessato alla contemplazione, alla possibilità di affioro di un'emozione inaspettata e non programmata a tavolino. L'esperimento può riuscire oppure no, dipende da tanti fattori. Certo è che in un'era, potremmo dire, del "tutto e subito", mi rendo conto che la nostra traiettoria di compagnia naviga in direzione opposta. Ma fare altrimenti davvero non ci interessa.

A tuo avviso quali sono le sostanziali differenze, nel metodo d'insegnamento, tra la danza contemporanea in Italia e negli Stati Uniti?
Che io sappia l'Italia non ha più insegnanti di danza contemporanea, e quelli che ha avuto erano americani, appunto (penso ancora a André Peck, a Roberta Garrison ad esempio). Per il resto ci sono principalmente coreografi che insegnano, ma è molto diverso. Anche qui c'è molta confusione: essere un maestro o fare il coreografo non è la stessa cosa. È così che i nostri danzatori presentano una infarinatura di tutto e una conoscenza di poco. Nessuno ha più voglia di studiare perché tutti sanno che, bene o male, potranno danzare. Anche in Europa va così, a parte nelle grandi scuole. Forse, ora mi azzardo in un senso un po' inattuale: quella che chiamiamo "performance" (che poi non si sa bene cosa stia ad indicare), ha simultaneamente alzato il livello delle possibilità sceniche e abbassato l'ardimento dei nostri danzatori (sto parlando di insegnamento della danza contemporanea. Nella danza classica si rintracciano ancora ottimi maestri e danzatori, per fortuna.) In America è diverso, hanno ancora le grandi scuole delle tecniche inventate da Cunningham, Graham, Limon, Nicholais, e anche le sperimentazioni più ardite del passato (penso che so a Paxton, a Brown, a Childs, a Rainer) presentavano danzatori formidabili.

Negli Stati Uniti il danzatore classico è formato per danzare anche il contemporaneo. In Italia questo non avviene sempre?
Infatti, sono due mondi e dimensioni che corrono parallele e si incontrano pochissimo. Devo dire che io lavoro solo con danzatori di formazione classica, perché sono quelli più preparati. E sono molto fortunato perché ho danzatori bravissimi e molto aperti mentalmente al nuovo. Ma quello che manca è la storia nei corpi, per così dire, come se nulla fosse stato sedimentato, e la raffinatezza, quelle sfumature del gesto che grandi maestri hanno messo a punto, quelle qualità inaudite che grandi coreografi hanno inventato, non sono sopravvissute, se non in un'infarinatura da un'occhiata su youtube...

Tante sono le tue creazioni di successo, a quale sei più affezionato?
Forse a "Infanzia di San Francesco d'Assisi". Ma non è stata affatto una creazione di successo... E, tanto per rimanere fedele al mio spirito di contraddizione, non è affatto un lavoro astratto. Non è neanche narrativo nel senso classico della parola, eppure narra, a suo modo.

Tra tutti i giovani coreografi della scena nazionale ed internazionale chi reputi interessante?
Mi piacciono Shang Chi Sun e Po-Cheng Tsai, entrambi Taiwanesi. Sono coreografi che davvero inventano mondi inesistenti e utilizzano un ampissimo vocabolario del movimento. E mi piacciono gli italiani Dewey Dell e Monica Gentile; anche loro seguono una strada del tutto personale, fortemente inventiva e indipendente. E una forte dose di indipendenza credo che in Italia sia necessaria, per sfuggire a quell'influenza luccicante e nefasta di una certa politica culturale che sempre più rapidamente sembra spingere i giovani autori nella direzione della "vendita ora e subito". Senza passare dalle ben note e necessarie "cantine": subito sotto i riflettori della ribalta internazionale.

La musica che ruolo gioca nel tuo lavoro?
Ci sono alcuni tipi di musica che si addicono alla danza e sono quelli che più la lasciano libera nella sua corsa. Anche qui, devo dire, non mi interessa l'intrattenimento, ma la possibilità di incontrare stati non convenzionali del sentire, dell'emozionarsi. Collaboro con i "Mountains", una band americana, e con Daniela Cattivelli. In loro trovo una sorta di libertà.

Il tuo primo lavoro coreografico a cosa si ispirava e dove è stato rappresentato?
Al mito di Ganimede. Era tuttavia un pezzo molto astratto in collaborazione con il musicista Maurizio Martinucci che compose delle sonorità davvero stupefacenti. Era un brano coreografico di trenta minuti costruito per quadri non consequenziali, che esploravano una possibilità di rimando fra atmosfere puramente danzate e atmosfere arcaiche, senza tempo. Le prime rappresentazioni furono a Ravenna e a Roma, ma successivamente arrivò anche al "Montpellier Danse" in Francia.

"Circo Massimo" è stato in scena per quattro mesi consecutivi al Duse di Bologna. Un grande successo?
A livello di spettatori il Duse è abituato a ben altri numeri, perché, notoriamente, è un teatro popolare. Ma il successo consiste nel progetto in sé, nell'azzardo di aver portato un progetto sulle nuove tendenze della danza in un teatro classico, appunto. La risposta del pubblico e della critica è stata ottima, e la risposta degli artisti invitati entusiasmante. Speriamo davvero ci siano i presupposti e la costanza per proseguire il progetto, perché è davvero una porta che si può aprire come esempio anche per altri teatri italiani.

Dirigi una tua Compagnia "Le Supplici". Quali sono i maggiori problemi riscontrati per chi vuole fare danza a livello professionale nel nostro Paese?
La persuasione che, in fondo, della danza si possa benissimo farne a meno. Lungi dall'essere ancora quella manifestazione inesplicabile per cui l'uomo (ma anche altri animali) da sempre, e senza ragione, iniziano a danzare per gli Dei o per la Natura, chissà, la danza è oggi oggetto fra gli oggetti, suscettibile dunque di essere comprato/acquistato, utilizzato, sostituito, gettato via. Questa è la premessa valida per tutto l'Occidente. Quando parliamo di investimento e sostegno economico alla danza rischiamo di mancare il bersaglio: la danza va sostenuta economicamente non nel senso dell'investimento che poi, in un modo o in un altro, tornerà indietro ancora sotto forma di economie, ma nel senso di tutela, come si tutelano, ossia gli si permette di esistere ancora, gli stambecchi sulle Alpi. L'investimento sulla danza italiana da parte degli enti italiani stessi, è stato da sempre pressoché inesistente proprio per questo motivo: c'era o non c'era un ritorno? Nessuno sa dirlo con certezza. Ora sembra muoversi qualcosa, ma rimarcando ancora di più l'errore: c'è una corsa e un'attenzione esclusiva al prodotto nella sua forma di intrattenimento più immediata, che porti pubblico a teatro, che faccia girare economie. I direttori dei teatri e di molti festival qualche risultato lo ottengono – vedi le Stagioni piene di repertorio classico, di titoli che riecheggiano e riproducono infinite "Carmen", "Bolero", "Lago dei cigni" ecc. – e magari per una sera hanno anche il botteghino sold out... Ma dopo questa presunta Restaurazione cosa verrà?

Come nasce il nome della Compagnia e qual è il suo punto di forza?
Le Supplici si rifà naturalmente al mondo greco antico. L'atto di supplicare, che in quel mondo ormai estinto ma che ci costituisce dalle fondamenta, si realizzava nell'inginocchiarsi e stringere e abbracciare, le ginocchia di colui a cui si chiedeva la grazia, un riconoscimento, un segno di assenso, è un'immagine che mi ha sempre commosso. Il punto di forza della compagnia credo che venga riconosciuto, soprattutto dall'estero, in un rigore della forma danzata che tende all'astrazione e che tuttavia sembra rivelare un sostrato fatto di mondi arcaici peculiarmente italici, che di volta in volta, e a seconda dei lavori, prendono forma e intensità diverse.

Dove trovi la fonte d'ispirazione per le tue coreografie?
Dalla natura, credo, e dal paesaggio italiano, dove sono nato. Ma sento di dover precisare che "paesaggio" per me ha una valenza immaginale, non letterale. Pertanto mi rendo conto che il paesaggio che vedo non è del tutto il paesaggio reale là fuori, e non è il paesaggio che vedi tu, che a tua volta avrai il tuo personale paesaggio immaginale.

Nei tuoi lavori cosa vuoi lasciare in eredità agli spettatori, una volta terminato lo spettacolo?
Ho appena parlato di paesaggio immaginale, ebbene credo che quello che mi piacerebbe lasciare allo spettatore è una traccia, una linea d'astrazione e di fuga che, attraversando di volta in volta paesaggi immaginali dalle grane spesso legate a elementi della natura italiana, e dunque grane fiabesche, arcaiche, contadine, prenda una curvatura e un riflesso diverso, come una polvere o un polline depositato sopra un piumaggio. Ed ecco che questa traccia si può ora prefigurare come un uccello in realtà, che sbattendo le ali si dissolve nella lontananza che tende all'astrazione, al puro linguaggio, in una traiettoria siderale verso ciò che non esiste.

Quando ti occupi delle audizioni per la ricerca di danzatori da inserire in Compagnia, cosa ti colpisce in un candidato/a?
Dipende dal lavoro che ci apprestiamo a realizzare, ma direi la persona nel suo insieme, il carattere. Poi a seguire la tecnica e l'abilità, certamente.

In conclusione, come ti senti di definire la danza come "veicolo e motore artistico culturale"?
La danza, e tutta la cultura, dovrebbe a mio parere restare nella sua inutile, stupenda distanza. Cerchiamo invece sempre o qualcosa di utile, cioè che generi profitto (ormai si parla di compagnie di danza come di "imprese"), che produca prodotti vendibili, oppure vi cerchiamo qualcosa di consolatorio, o di inquietante pure, ma purché parli sempre di noi, che ci racconti. Ciò che sfugge completamente è la totale e connaturata alterità della danza rispetto al mondano. Non si può imparare nulla se non si accetta l'alterità. Non si può capire nulla se non ci si mette in ascolto di un linguaggio definitivamente incomprensibile.

Michele Olivieri

Ultima modifica il Sabato, 03 Marzo 2018 07:15

About Us

Abbiamo sempre scritto di teatro: sulla carta, dal 1946, sul web, dal 1997, con l'unico scopo di fare e dare cultura. Leggi la nostra storia

Get in touch

  • SIPARIO via Garigliano 8, 20159 Milano MI, Italy
  • +39 02 31055088

Questo sito utilizza cookie propri e si riserva di utilizzare anche cookie di terze parti per garantire la funzionalità del sito e per tenere conto delle scelte di navigazione. Per maggiori dettagli e sapere come negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie è possibile consultare la cookie policy. Accedendo a un qualunque elemento sottostante questo banner si acconsente all'uso dei cookie.

Per saperne di più clicca qui.