venerdì, 08 novembre, 2024
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CONVERSAZIONE con ALESSANDRO SERRA - di Nicola Arrigoni

Alessandro Serra Alessandro Serra

Macbettu, il dialetto e Dioniso in terra di Sardegna
Conversazione con Alessandro Serra di Teatropersona
di Nicola Arrigoni

Ci sono spettacoli che cercano con coraggio di rompere gli schemi della messinscena, lo fanno interrogando il testo e piegandolo a suggestioni, utilizzandolo come strumento per rievocare storie, atmosfere altre. E' questo il caso di Macbettu di Alessandro Serra, spettacolo realizzato da Sardegna Teatro e Compagnia Teatropersona, ora in tournée carico dei prestigiosi riconoscimenti di miglior spettacolo di Anct e Ubu. Ciò che interessa è capire perché e da dove scaturisce l'intuizione di leggere la tragedia di Macbeth attraverso la lingua sarda e la sua tradizione antropologica. A spiegare presupposti e pensiero che stanno all'origine dell'operazione di Macbettu è il regista Alessandro Serra.

Da cosa nasce binomio sardo e Macbeth?
«L'idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia. I suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero hanno una loro forza intrinseca. La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l'incredibile precisione formale nelle danze e nei canti costituiscono un tessuto di racconto e senso di rara intensità. Le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall'uomo, ma soprattutto il buio inverno hanno sorprendenti analogie col capolavoro shakespeariano. In realtà non si tratta di una contaminazione, ciò che ho cercato di fare è estrarre dall'opera gli elementi universali riscontrabili in ogni anfratto del mondo e della storia oltre che nell'animo umano. Mi riferisco agli archetipi e ai meccanismi della natura umana. La Sardegna mi ha fornito la materia, la cenere, il sughero, il ferro, le cortecce degli alberi, il codice barbaricino, l'ironia pungente e irriverente dei carnevali, e poi le pietre che si fanno arma, nuraghe, ma soprattutto suono, tutto questo grazie alle opere di Pinuccio Sciola».

Che rapporto linguistico ha intessuto fra poesia shakespeariana e dialetto sardo?
«Il sardo è la lingua di mio padre, un suono aspro, asciutto, tagliente. Una lingua cruda eppure incredibilmente musicale. Il sardo logudorese è la lingua del canto a tenore, che l'Unesco ha riconosciuto tra i patrimoni immateriali dell'umanità. Un suono che ha accompagnato le mie estati dai nonni. In casa si parlava sardo, si mangiava sardo, si beveva sardo, c'era l'odore del formaggio e della ricotta. Mio nonno si vestiva da nobile barbaricino, sapeva di casu marzu e parlava una lingua misteriosa e terribile. Quando nel febbraio del 2006 andai a Lula e poi a Bitti, Orgosolo, Gavoi... inseguendo i carnevali e i canti a tenore, quel suono che un tempo capivo e che mi faceva paura, risuonò in me e mi sembrò perfetto per raccontare quel tragico destino».

Come ha lavorato sulla drammaturgia?
«C'è stata una prima riscrittura a tavolino, quindi l'incontro con la materia e con gli attori a cui come sempre ho dato in pasto il frutto delle mie ricerche. Ogni mia visione, immagine, idea, ogni singolo elemento, oggetto, costume, raccolto nel periodo di preparazione allo spettacolo a un certo punto deve incontrare l'attore. Un incontro materico, emancipato dal testo o dall'ansia di dover trovare la soluzione giusta. È un gioco con la materia, malleabile e pronta a reagire a ogni impulso. Dall'incontro con gli attori sono emerse le immagini o i momenti di profonda comicità ed emozione. Io devo solo stare molto attento a coglierli e a trasformarli per renderli duttili e utilizzabili nel montaggio. La parola è arrivata a metà percorso e il fatto di aver costruito una struttura visiva altamente evocativa che si è assunta l'onere di veicolare i sensi dello spettacolo consentendo alla parola di farsi canto».

Chi sono Macbeth e lady Macbeth? Cosa li muove?
«Macbeth - diceva Emil Cioran - a suo modo è un grande pensatore, come Amleto. Lo si deve leggere bene perché c'è qualcosa che dice, aldilà delle circostanze, di una profondità devastante. La vita è solo un'ombra che cammina... Mi ritrovo ossessionato da un individuo, il cui grande limite me lo rende paradossalmente commovente, compassionevole. Macbeth pensa incessantemente al futuro, domani e domani e domani... si proietta terribilmente in avanti e non riesce a vivere il presente, impazzisce dunque per questo. È quasi un emblema di questa società accelerata, che va di corsa e che non è spiritualmente pronta ad accogliere una tecnologia che forse ci renderà immortali ma ci sta già consumando l'anima. Non siamo pronti ad accettare questo scorrere del tempo, vogliamo possederlo con le tecnologie (che in pratica lo allungano) ma di fatto ne siamo divorati. Questo disperato non riuscire a vivere il presente mi fa sentire Macbeth vicino, vivo».

Avete ottenuto i massimi premi del teatro italiano. cosa è piaciuto del lavoro? perché tanto consenso?
«Macbettu è un'opera popolare nel senso più profondo del termine. In tutto il mondo le reazioni sono sempre le stesse. Un profondo silenzio e risate liberatorie. C'è la ricerca di un linguaggio universale che possa veicolare sensi ed emozioni a più livelli. In questo senso è profondamente elisabettiano. Shakespeare riesce a costruire frasi di un lirismo assoluto seguite da una prosa che non teme di essere anche scurrile, comica, volgare... nella nostra opera si accendono gli archetipi e si racconta l'umano. Non so cosa piaccia alla critica, per conto mio mi colloco nella tradizione, so però cos'è che ama la gente che ogni sera riempie i teatri e ci tributa sempre lunghi e calorosi applausi: si emozionano, ridono, non si sentono ingannati e si commuovono per la generosità degli attori».

Ultima modifica il Venerdì, 18 Gennaio 2019 07:30

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