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INTERVISTA a ALESSANDRO SCIARRONI - di Michele Olivieri

Alessandro Sciarroni. Foto Andrea Macchia Alessandro Sciarroni. Foto Andrea Macchia

Alessandro Sciarroni è un artista italiano attivo nell'ambito delle Performing Arts. Ha conseguito la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l'Università degli Studi di Parma. Come performer, si è formato e ha lavorato per diversi anni presso la compagnia Lenz Rifrazioni. Le sue opere vengono presentate in festival di danza e teatro, musei e gallerie d'arte, così come in spazi non convenzionali e prevedono il coinvolgimento di professionisti provenienti da diverse discipline. Il suo lavoro oltrepassa le tradizionali definizioni di genere. Parte da un'impostazione concettuale di matrice duchampiana, fa ricorso ad un impianto teatrale, e può utilizzare alcune tecniche e pratiche derivanti della danza e da altre discipline come il circo e lo sport. Oltre al rigore, alla coerenza e alla nitidezza di ogni creazione, i suoi lavori tentano di disvelare, attraverso la ripetizione di una pratica fino ai limiti della resistenza fisica degli interpreti, le ossessioni, le paure e la fragilità dell'atto performativo, alla ricerca di una dimensione temporale altra, e di una relazione empatica tra spettatori e interpreti. Alessandro Sciarroni è artista associato del Centquatre-Paris ed è sostenuto come "focus-artist" da apap – Performing Europe 2020. I suoi spettacoli sono prodotti da Marche Teatro in collaborazione con diversi coproduttori nazionali e internazionali, a seconda dei progetti. Alcuni dei sostenitori storici sono Centrale Fies, Comune di Bassano del Grappa – Centro per la Scena Contemporanea, Amat, la Biennale de la danse – Maison de la Danse de Lyon, La Biennale di Venezia, Mercat de les Flors – Graner (Barcelona) e l'Associazione corpoceleste_C.C.00# della quale è direttore artistico. Fra i premi ricevuti: Premio Europa Realtà Teatrali 2017; Premio Hystrio 2017; Premio Rete Critica 2013; Marte Award 2012 e 2013; Premio Danza&Danza – Coreografo emergente 2008; Premio Nuove Sensibilità 2008.

Gentile Alessandro, partiamo con le congratulazioni di rito per l'annuncio dato dalla Biennale di Venezia relativo all'assegnazione del Leone per la Danza 2019 alla Sua persona. La motivazione recita "...considerato fra i più rivoluzionari coreografi della scena europea". Quali sono i sentimenti per un traguardo così prestigioso e così internazionale?
Sono ovviamente lusingato ed onorato. Non mi aspettavo assolutamente questo premio. Mi sono molto commosso quando ho ricevuto la notizia. Ho risposto alla lettera ufficiale del Presidente Paolo Baratta ringraziandolo e sottolineando quanto mi renda felice l'essere premiato nella cornice della Biennale Danza. La Danza è il "territorio" che ha accolto i miei lavori sebbene la mia formazione non sia esattamente "ortodossa". Lo stesso giorno della premiazione (il 21 giugno), alla sera, presenteremo in prima italiana la nostra nuova produzione, "Augusto", assieme alla mia prima creazione "Your Girl".

Mi parli della sua prima coreografia e dell'ultima. C'è un file sottile che lega ogni sua creazione installazione/coreografia all'altra?
"Your Girl" è una breve performance di 25 minuti con Matteo Ramponi e Chiara Bersani (premio Ubu 2018 miglior performer femminile under 35). In "Augusto" in scena invece ci sono nove interpreti: danzatori, performer e cantanti. Quando ho iniziato a produrre i miei lavori, mi sembrava che la sfida fosse quella di creare un evento dichiaratamente emozionale, che comunicasse un certo tipo di vulnerabilità fisica ed emotiva. Il lavoro venne presentato per la prima volta in un contesto di arti visive dove all'epoca regnava una sorta di freddo e rigoroso concettualismo. Noi invece volevamo mostrarci come eravamo allora: assolutamente sentimentali, fragili. Il momento storico che stiamo vivendo oggi invece è molto diverso. L'ondata razzista e xenofoba che sta attraversando i paesi occidentali ha influenzato fortemente la mia visione. Oggi il mio sguardo è più disilluso, critico. In "Augusto" vi è la rappresentazione di una società che per un'ora intera è costretta a ridere senza sosta, senza alcun motivo. Oggi come allora i miei lavori cercano di stabilire uno scambio emozionale con il pubblico. Ma se "Your girl" invitava il pubblico all'interno di un'intimità, "Augusto" può arrivare a disturbare parte di esso.

La sua presenza alla Biennale di Venezia è diventata, negli ultimi anni, una presenza fissa, grazie alle originali costruzioni coreografiche. Che rapporti nutre con l'istituzione veneziana?
Ho iniziato a presentare i miei lavori in Biennale già dalla prima edizione di Virgilio Sieni. Non mi aspettavo che la direzione successiva avrebbe voluto invitarmi di nuovo. Marie Chouinard ci ha contattato chiedendoci i video di alcuni spettacoli. Nel 2016 ha deciso di presentarne tre. Inoltre ho lavorato in diverse occasioni alla "Biennale College" come docente/coreografo. Farò lo stesso quest'anno.

Mi piacerebbe fornire al lettore una sorta di piccolo vademecum sulle sue creazioni a Venezia sintetizzate in stringati concetti. Nel 2013 ha presentato "Untitled_I will be there when you die".
Un lavoro che mette al centro la figura del giocoliere e la pratica della giocoleria. Questa disciplina viene presentata come una forma di meditazione, lontano dai cliché che la legano ad un'idea di un mero fenomeno d'intrattenimento.

Nel 2014 "You don't know how lucky you are".
Abbiamo lavorato con gli studenti della "Biennale College" sulla pratica del "salto". L'azione è una metafora dell'impossibilità del corpo di vincere contro la forza di gravità. Nel lavoro sottolineiamo la caparbietà dell'essere umano, l'insistenza nel cercare di superare i propri limiti, il tutto con una certa dose di gioia. Nel lavoro erano presenti, oltre ai danzatori, anche acrobati e atleti provenienti dalla disciplina del "Parcour".

Nel 2015 "TURNING_Thank you for your love version".
È uno studio con cinque danzatrici sulla pratica del "Turning", sempre all'interno della "Biennale College". Una ricerca sulla quale ho fatto diversi spettacoli, che io chiamo "versioni". Al centro c'è sempre il corpo che ruota su se stesso per un tempo indeterminato, inusuale, inopportuno, disteso. "Turning" vuol dire girare, ma anche cambiare, evolvere.

Nel 2017 "Chroma, Aurora e Folk-s"?
"Chroma" è la versione solista del progetto "Turning", ci sono io in scena. "Folk-s" è un lavoro del 2012 che parla della tradizione. In scena i danzatori eseguono passi di danza dello "Schuhplattler", i balli popolari tirolesi. In "Aurora" gli interpreti sono non vedenti ed ipovedenti. Sono atleti provenienti dalle squadre nazionali di "Goalball", una disciplina paraolimpica, una specie di "palla a mano" che viene eseguita con gli occhi bendati. In questo spettacolo ricostruiamo sul palco una vera partita.

Mi racconta gli anni di formazione in "Conservazione dei Beni Culturali" trascorsi all'Università degli Studi di Parma?
Ero appassionato delle materie più contemporanee, ma anche l'Arte medievale mi piaceva molto, assieme alla Poesia contemporanea. Ma le mie grandi passioni erano la Storia della fotografia e ovviamente l'Arte contemporanea.

In quale occasione ha calcato per la prima volta il palcoscenico?
A diciannove anni (credo). Interpretavo il ruolo di Gesù nello "Stabat Mater" di Jacopone da Todi con una compagnia locale. Come professionista invece presso la compagnia "Lenz Rifrazioni", in un allestimento del "Sogno di una notte di metà Estate". Avevo vent'anni. L'anno successivo ho interpretato il ruolo di Amleto, in uno spettacolo della stessa compagnia assieme a Franco Scaldati. In questo senso la mia formazione è avvenuta lavorando, praticando. Sono rimasto a Parma con Lenz per nove anni, poi ho iniziato a fare i miei lavori.

Concettualmente si rifà al pensiero duchampiano, in cosa ritrova il genio?
Duchamp viene considerato dalla critica ufficiale del secolo scorso come il primo artista ad aver rivendicato un certo tipo di libertà nell'arte. L'idea che un oggetto incontrato fuori dallo studio possa diventare "opera" è stata certamente rivoluzionaria. Da quel momento in poi l'arte non è stata più giudicabile secondo i criteri precedenti. La tecnica poteva non avere più alcuna importanza. L'idea di poter "usare" nel proprio lavoro qualcosa che già esiste mi ha molto affascinato. Io faccio lo stesso in alcuni spettacoli. Uso danze e pratiche che non ho "inventato". La danza popolare tirolese, la giocoleria, lo sport... sono dei "ready made" per me... ma le mie non sono operazioni puramente concettuali. Il coinvolgimento emotivo da parte del performer e dello spettatore sono molto importanti. Inoltre i miei "oggetti trovati" vengono lavorati di nuovo in studio in maniera ossessiva. Duchamp invece, su certi oggetti metteva semplicemente la sua firma, senza alcun tipo d'intervento sull'opera. Parlo di Duchamp perché è l'artista universalmente riconosciuto dalla critica e dal mercato per aver fatto queste operazioni per la prima volta. La realtà è che oggi, un certo di tipo di critica molto interessante, sta riscontrando quei traguardi anche in alcuni artisti contemporanei a Duchamp (in vari casi addirittura precedenti), che sono stati ignorati durante il secolo scorso. Spesso si tratta di artiste donne.

Oggi si divide, con successo, in qualità di performer, coreografo, regista, grazie anche ad una formazione nell'ambito delle arti visive e teatrali. Che evoluzione ha avuto, nel tempo, il suo cammino artistico?
Finiti gli anni di lavoro come performer credevo che avrei presentato i miei spettacoli nell'ambito delle arti visive oppure in quello del teatro di ricerca. Invece i miei lavori erano ritenuti troppo minimalisti per il teatro, e troppo "barocchi" per le gallerie. A partire dal 2007, con mia grande sorpresa, sono stato invitato da alcuni festival di danza contemporanea, e da quel momento è stato come se il mondo della danza mi avesse adottato. Io non mi chiedo mai se ciò che faccio sia o non sia danza. Sono lusingato nell'essere definito coreografo. Mi sento come uno straniero che è stato accolto in un Paese che non è il suo. Il linguaggio che parlo non è quello del Paese che mi ha accolto eppure mi è stato concesso di restare. Credo che nelle altre arti non ci sia quest'apertura. Non c'era sicuramente allora. È una cosa straordinaria.

L'elenco delle sue partecipazioni è lunghissimo, tante prestigiose compagnie e tanti luoghi carichi di storia e di fascino. Nella scelta artistica lei è un istintivo o pianifica il tutto in base a quali criteri?
Sicuramente sono un istintivo. Ma una volta che le scelte sono state fatte vengono pianificate nei minimi dettagli. Le nostre produzioni indipendenti hanno una gestazione molto lunga. In quanto compagnia, avendo scelto di non fare la domanda ministeriale, non siamo obbligati a produrre un lavoro nuovo ogni anno, ed alcuni progetti necessitano un tempo più lungo dei classici sessanta giorni di prove. Per "Aurora" ad esempio c'è voluto un anno solamente per individuare gli atleti/performer non vedenti che potessero aderire ad un progetto così delicato.

Ha creato per numerosi festival di danza e di teatro, gallerie d'arte, musei, dall'Europa ad Hong Kong, da Abu Dhabi a Rio de Janeiro. Quanto la gratifica l'essere riuscito ad aprire porte non sempre accessibili allo spettacolo?
Sono molto lusingato ovviamente, e mi sento fortunato. Tutta questa avventura era inimmaginabile per me. E la cosa che mi rende più felice è il fatto che non ci siamo mai appoggiati ad un'agenzia di distribuzione. Lisa Gilardino cura i miei progetti e cerchiamo di produrre e distribuire in maniera sostenibile. Il lavoro curatoriale è molto importante. A partire dal 2009 il mio lavoro ha iniziato a ricevere attenzione a livello internazionale. In quel momento sentivamo che venivamo invitati perché rappresentavamo "una novità". Non c'erano tanti coreografi che avevano riscoperto la ripetizione nella danza come oggi, e il fatto di arrivare da un paese che viene considerato (aimè) tradizionalista e conservatore ci rendeva quasi "esotici" all'estero. Oggi le cose sono cambiate, giriamo in meno contesti, ma le relazioni sono più solide e meno legate ad un "trend", e sinceramente va benissimo così.

Qual è la maggiore qualità estetica che apprezza applicata all'arte in ogni suo linguaggio e declinazione?
Sono affascinato da tutte quelle opere che parlano di un mistero palpabile senza rivelarlo. In quei casi, sento che c'è qualcosa di archetipico in ciò che vedo che riguarda tutti noi.

Quanto è fondamentale nel suo lavoro saper ascoltare gli altri, relazionarsi con gli elementi e con lo spazio?
Questa è una domanda molto importante oggi. Non ho mai voluto creare una compagnia in senso tradizionale, perché credo che spesso si rischi di cadere in alcune forme di dipendenza e nei casi peggiori, si possano compiere gravi abusi emotivi. Preferisco considerare il lavoro con gli interpreti come delle collaborazioni. Sono rimasto molto scosso dalla lettera aperta che è stata scritta da alcuni dei danzatori della compagnia di Jan Fabre. Oltre allo scandalo sessuale, per la prima volta vengono denunciate le condizioni nelle quali lavorano i performer. Assieme all'ossessione per una forma fisica tutt'altro che sana, nella lettera si parla finalmente di manipolazioni psicologiche e insulti verbali. Si parla di danzatori messi in competizione tra loro in maniera diretta e indiretta, per poter accedere ad un ruolo da solista. Credo sia ora di guardare in faccia il fatto che come coreografi e direttori di un progetto abbiamo la responsabilità di capire che la nostra è una posizione di potere. Non voglio sembrare naif, so che il teatro non potrà mai essere un sistema democratico: ma il coreografo oltre ad arrogarsi il diritto decisionale rispetto al lavoro, deve anche assumersi gli oneri e le responsabilità della guida del gruppo di cui è a capo. Non è possibile nel 2019 vedere ancora danzatori "freelancer" con un numero attaccato sul petto durante i casting, costretti a sgomitare per ottenere una parte. Non è possibile trovarsi a creare per compagnie dove i danzatori sono portatori di una magrezza che è evidentemente sintomo di un disturbo alimentare. Non è possibile mettere i performer gli uni contro gli altri e usare le loro fragilità al fine di produrre un'esperienza "artistica". Dobbiamo studiare nuovi metodi di lavoro più sani ed eticamente sostenibili. Dobbiamo prenderci cura della salute fisica e psicologica degli interpreti. Dobbiamo creare le condizioni tali affinché tutti possano lavorare con piacere. Il lavoro artistico non può essere un incubo per gli interpreti come avviene in alcune compagnie ancora oggi. Gli artisti non sono di proprietà delle compagnie, devono essere lasciati liberi di fare esperienze con altri coreografi se sono dei "freelancer". E mi lasci dire un'altra cosa Signor Olivieri... il luogo comune che sostiene che l'arte debba essere sofferenza è solo una grande bugia inventata da qualche insicuro regista/coreografo con tendenze dispotiche. Lo stress e le ossessioni sono una responsabilità dei registi e dei coreografi mentre i danzatori devono essere liberi da qualsiasi preoccupazione durante il processo di creazione e durante le repliche.

Dove trova la fonte d'ispirazione per le sue creazioni o meglio da cosa parte se non è un lavoro su commissione?
Parto sempre da un'intuizione che arriva improvvisa. Può essere un'immagine, un evento, una frase... "Folk-s" ad esempio, è nato così. Un giorno mi hanno regalato un cd di Rufus Wainright, nella quarta di copertina c'era un suo ritratto scattato da Sam Taylor-Johnson. Nella foto il cantante indossava l'abito tradizionale tirolese. Per la prima volta ho pensato al potenziale contemporaneo di quella tradizione. Se l'idea mi resta in testa per più di qualche giorno allora forse ne nascerà un progetto nuovo.

Nei suoi allestimenti cosa vuole lasciare in eredità agli spettatori una volta terminato lo spettacolo?
Vorrei precisare che la nostra è arte "dal vivo" e in quanto tale non crea lo stesso effetto sul pubblico ogni sera. Questo perché la performance cambia, così come cambiano le condizioni psicofisiche degli interpreti. Ciò che cambia inoltre, è il pubblico, che per me, energeticamente, è parte integrante del lavoro. Uno spettacolo non "funziona" sempre alla stessa maniera. Io posso dire di essere contento quando gli spettatori affermano di aver partecipato ad un'esperienza e di non aver solo assistito ad una pièce.

Ogni grande artista ha un suo stile ben riconoscibile. Come si sente di definire il complesso di scelte e mezzi espressivi che costituiscono l'impronta di Alessandro Sciarroni?
Di solito, per semplificare, di me dicono che lavoro sul concetto di ripetizione e che porto i performer all'esaustione fisica. Io non sono esattamente d'accordo. Per me c'è molto di più. La ripetizione serve a trasportare spettatore e performer in una dimensione in cui "il tempo si dilata". Quello che per alcuni può sembrare "sfinimento fisico" è in realtà "una ricerca del piacere", che si sviluppa attraverso la ripetizione di un'azione o di un gesto. Il pubblico spesso è impressionato dalla mia resistenza fisica e da quella dei miei performer. In questo senso le prove servono a preparare il corpo e a fare in modo che nessuno si faccia male e ad essere allenati. Una volta appresa la tecnica, si è in grado di andare alla ricerca del piacere fisico e psicofisico. Per questo spesso, "i danzatori nei miei lavori sorridono mentre sembrano sotto sforzo". Non è una semplice indicazione registica. Se sorridi e incroci lo sguardo del tuo compagno di scena che ti sta sorridendo a sua volta, c'è uno scambio di energia che permette al gruppo di lavoro di continuare la pratica più a lungo e con maggior piacere.

Quali sono stati i suoi Maestri di teatro e danza, non solo materiali ma anche ideali?
Il lavoro svolto come performer presso la compagnia "Lenz Rifrazioni" è stato fondamentale sotto molti aspetti. Ci sono poi autori che ho scoperto a vent'anni che hanno influenzato la mia poetica. La fotografa Diane Arbus, alcuni romanzi come "The Waves" di Virginia Woolf, il fenomeno della "Body Art" in generale. Rispetto alla danza, non sono stato influenzato da altri coreografi, conosco il lavoro di pochissimi di loro. Preferisco non studiare la storia della danza, non voglio sapere cosa è stato fatto in passato, ne sarei troppo influenzato. La danza che mi colpisce, che mi ispira, di solito è quella che porta con se un valore al limite dell'ancestrale, come la danza popolare, ma anche in questo caso so di non esserne un grande conoscitore. Se parliamo di movimento, sono molto affascinato dal movimento degli animali, dagli stormi, dalle migrazioni, dal cambiamento delle stagioni, dal passare degli anni. Ma anche in questo caso preferisco "osservare" questi fenomeni, senza studiarli. Mi piace il loro mistero e mi piace che resti tale per me.

Come si dovrebbe valutare obiettivamente una creazione altrui?
Probabilmente basterebbe ammettere che non si può valutare obiettivamente una creazione altrui, dopodiché si può dire ciò che si vuole. Una cosa che non sopporto ad esempio è quando chi fa critica usa il plurale allargando il suo giudizio a quello del pubblico in sala. Credo sia un errore cognitivo molto grossolano.

Picasso sosteneva che "tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi", è d'accordo?
Vede Signor Olivieri, non a caso ho sempre preferito Matisse a Picasso... Ma non credo di essere d'accordo. Il fatto che i bambini possano essere più creativi, spensierati, e con meno sovrastrutture di un adulto non li rende necessariamente degli artisti. Una volta un giocoliere con il quale ho collaborato per "Untitled" mi disse che da piccolo, mentre i suoi amici giocavano a calcio, lui preferiva giocare da solo con la palla; era capace di fare "palleggi" per ore e ore, in completa solitudine. Per me quella è la figura di un artista/bambino. Credo che la pratica artistica sia questo: un piacere al limite dell'ossessione. In questo senso, l'arte non ha nulla a che fare con la creatività, la naturalezza o la spensieratezza. Non lo dico con un'accezione negativa: l'arte è una questione di cura e di dedizione, e in questo senso, può essere paragonata ad una forma d'amore.

Michele Olivieri

Ultima modifica il Martedì, 05 Febbraio 2019 12:27

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